La democrazia non può barare

Cosa accade se per paura dell'uomo nero giochi sporco? Austria paradosso politico

La democrazia non può barare

L'Austria adesso è un paradosso politico. Cosa accade se per paura dell'uomo nero giochi sporco? È la notte del 22 maggio. Ballottaggi. I due candidati si stanno contendendo la responsabilità di governare voto a voto. Ogni scheda è un centimetro di vittoria. Uno dei protagonisti di questa storia è Alexander Van der Bellen, ex leader dei Verdi, ambientalista da sempre, economista, illuminato, il volto di un settantaduenne con la barba di alcuni giorni come ultimo segno di un passato controcorrente, suo padre e sua madre sono fuggiti dalla rivoluzione bolscevica del 1917. È rassicurante. L'altro è lo spauracchio. Si chiama Norbert Hofer. Quarantacinque anni, euroscettico, teme l'invasione dei profughi, il Brennero come confine invalicabile, indicato come un populista di destra. Dicono che sia un lupo travestito da agnello. La fine sembra un sospiro di sollievo. Van der Bellen vince con uno scarto di 30mila voti, un'inezia, uno scatto di reni sul filo di lana. Sono decisivi i voti per corrispondenza. Solo che qualcosa non quadra. Hofer fa ricorso. Ora la Corte Costituzionale austriaca sentenzia che ha ragione. Ci sono state irregolarità. La legge è stata violata. Tutto da rifare.

Qui c'è il sentimento del nostro tempo. Ci sono forze e movimenti difficili da decifrare. Sono fuori dal potere classico europeo. Sono nuovi, sono massa, sono incarnati nell'elettorato, sono devianti. Finora la risposta politica è stata un'etichetta: cattivi. Il problema è che se vuoi ridimensionarli questa cosa non funziona. Forse li rende più forti.

Ma il caso Austria mette in luce un altro grave errore, un peccato. La democrazia non può barare, neppure se ha paura, neppure per difendersi. Non lo può fare perché altrimenti rinnega se stessa. La svuoti, la ripudi, la tradisci. E a quel punto non è più sacra. I suoi nemici possono sputarci sopra. Tutto questo sarebbe ancora più devastante se quell'etichetta fosse falsa. Come minimo fai diventare i cattivi ancora più cattivi.

Che fare, allora? La risposta della sinistra europea è cieca. Cecità e panico, come chi si muove in una stanza buia. Il primo istinto è sospendere la democrazia, come un paziente in coma farmacologico. Non ti puoi fidare degli elettori. Non ti puoi fidare del «popolo». Non ragionano più con la testa ma con le viscere. Il potere è troppo delicato per lasciarlo ai molti. È un affare di pochi. Solo che questo scetticismo contro la democrazia, questo ripudio, si avverte, si sente e nutre la rabbia di quel «popolo» che un tempo era la canzone della sinistra. Quel disprezzo antidemocratico è ormai anche il volto dell'Europa. I voti a Orban in Ungheria, a Kaczynski in Polonia, a Farage e alla Le Pen sono insicurezza e paura, ma rispondono anche alla maschera sprezzante di Bruxelles. La mossa successiva è stata gridare alla fine delle élite. La sinistra in pratica si converte alle teorie novecentesche, non certo di sinistra, di Mosca, Pareto o Ortega y Gasset. Solo che lo fa nel modo sbagliato. Non riconosce l'aspetto più importante: il fallimento delle élite. Le élite hanno chiuso gli occhi davanti ad ogni problema: economico, demografico, sociale. Non hanno visto nulla e ora si stracciano le vesti davanti a un Occidente senz'anima. E se non riconosci gli errori continui a sbagliare.

Per superbia. Perché continui a costruirti alibi. Perché la colpa è sempre degli altri o del sistema. Allora il vero malato non è la democrazia, ma gli eredi indegni e mediocri di Pericle, quelli con la sindrome dei trenta tiranni.

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