Due "buu"? Niente partita. Resa del calcio ai razzisti

Due "buu"? Niente partita. Resa del calcio ai razzisti

Il consiglio federale della Figc cambia la procedura per la sospensione delle partite in caso di cori razzisti: alla prima manifestazione discriminatoria, il gioco verrà interrotto dall'arbitro e le squadre si raduneranno a centrocampo, in attesa che la contestazione si plachi. Se i cori dovessero ripetersi, allora le squadre rientreranno negli spogliatoi per la sospensione temporanea, mentre soltanto il responsabile dell'ordine pubblico potrà provvedere alla sospensione definitiva della partita, dopo consultazione con il direttore di gara. Il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, ha commentato negativamente la decisione: «Facciamo la scala Richter dei buu, non facciamo ridere».

In verità c'è poco da ridere, vista l'aria che tira e il potere che hanno preso certi manipoli, spesso coperti da complicità non del tutto occulte. La nuova procedura decisa della Federcalcio sembra avere una logica, come primo passo per affrontare il problema che sta intossicando lo svolgimento di alcune partite ma lascia in sospeso troppi interrogativi che sollevano i soliti dubbi e sospetti: gli ultras continuano a essere i protagonisti degli stadi, possono pilotare l'andamento di una partita, cioè la prosecuzione regolare della stessa, provocandone la sospensione nel caso in cui la squadra, per la quale fanno il tifo, si trovi in svantaggio, dunque ululando contro un calciatore di colore, offendendolo con cori e insulti, fa parte del loro repertorio «culturale» e strategico. In verità resta aperta la questione cardine, alla base dell'intero problema: la responsabilità oggettiva dei club. Questa viene considerata l'architrave della giustizia sportiva ed è disciplinata dall'articolo 4 commi II e III del Codice di giustizia sportiva, per cui la società di calcio risponde disciplinarmente, a prescindere dalla colpa o dal dolo, non soltanto dell'operato dei propri tesserati, compresi eventuali soci azionisti, ma del comportamento dei propri sostenitori, sia sul proprio campo (compreso l'eventuale campo neutro) sia in trasferta. Questa, dunque, dovrebbe essere l'architrave da abbattere, la responsabilità per le azioni dei tifosi che infine colpiscono non soltanto il club ma il resto degli spettatori «innocenti» e vittime (paganti, tra abbonamenti e biglietti di ingresso) di sentenze che non dovrebbero affatto riguardarli. I cori razzisti sono diventati musiche di accompagnamento di ciurme che tengono sotto schiaffo le società, che ricattano dirigenti e calciatori in cambio di privilegi, tessere omaggio, viaggi gratuiti al seguito delle squadre, protezione «mafiosa» di parenti e affini. È un mondo niente affatto subacqueo, già noto nei casellari delle polizie e facilmente smascherabile con l'ausilio delle telecamere. È un argomento che, tuttavia, l'ultima decisione della Federcalcio nemmeno sfiora, anzi rischia di esaltare e stimolare a nuove azioni di contestazione. Tra l'altro la procedura non spiega che cosa possa accadere nei momenti successivi al rientro delle squadre negli spogliatoi. Non è certo di competenza delle istituzioni calcistiche decidere l'eventuale (e probabile) evacuazione dello stadio e nemmeno quello di suggerire al responsabile dell'ordine pubblico quali interventi attuare.

Semmai c'è l'impressione che si voglia dare un segnale, qualcosa può cambiare ma trattasi di un palliativo, di un pallone calciato in corner invece di liberare,

con fermezza e un disegno tattico chiaro, l'area di rigore invasa da facinorosi. Basterebbe utilizzare il Var anche con gli ultras incivili. Il razzismo non si combatte contando gli ululati. Ma individuando gli ululanti.

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