Erica, ritratto di un robot a cui manca soltanto l'anima

Il ritratto dell'androide in gara per il premio fotografico più ambito del mondo

Erica, ritratto di un robot  a cui manca soltanto l'anima

E rica ti guarda di sfuggita e forse sorride, con quelle labbra socchiuse così difficili da decifrare. Erica gioca, Erica copia di una copia, Erica che si atteggia a Monna Lisa. Erica occhi a mandorla e frangetta castana, di profilo come una dama rinascimentale. Erica che cerca un posto tra gli umani. La bellezza non ha confini, neppure se cerchi di rubarla o fermarla con uno scatto. Il più importante premio per i ritratti fotografici è il Taylor Wessing e le opere dei tre vincitori finiscono alla National Portrait Gallery di Londra. Quest'anno c'è qualcosa di strano, di inatteso. C'è una ragazza fuggita dall'Isis, con un velo rosso a coprirle il capo, senza orecchini di perla, e lo sguardo disorientato davanti a una finestra che piange, lacrime nella pioggia. Sono gli occhi di chi ha visto il disumano. C'è un ragazzo nero con il Mediterraneo alle spalle, che guarda oltre Lampedusa e non intravede futuro. E poi c'è lei. La ragazza che sorride. Solo che Erica non è fatta di carne e sangue. È tutta intelligenza, artificiale. Erica è un'androide. È un robot. L'artista che ha scattato la fotografia è finlandese e si chiama Maija Tammi e un po' forse le assomiglia. Quasi un autoritratto. Il titolo: One of them is a human. Uno di loro è umano. E qui magari c'è il senso di tutta questa storia. Se la fotografi ti riconosci. Ti specchi. Se tu sei umana, lei è umana. Maija che porta il nome di una dea cara a Schopenhauer e ci toglie il velo delle illusioni.

Maija ha incontrato Erica nei laboratori della Hiroshi Ishiguro, lì dove vengono al mondo i replicanti, dove il futuro si fa quotidiano e non ha più nulla di fantascientifico. I robot sono già tra di noi e lo saranno sempre di più nei prossimi anni. Non solo le macchine intelligenti e da fatica del nuovo taylorismo industriale, ma quelle con il volto di Adamo ed Eva, quelle che lavorano, chiacchierano, pensano, ci fanno compagnia e magari, a modo loro, amano. Questo ritratto allora mette a nudo la linea di confine tra l'umano e il non umano, lì dove finiscono le cose e comincia quella che chiamiamo vita. Ed è una questione molto antica. È l'ambizione dell'uomo di assomigliare a Dio. È Talos il gigante di bronzo guardiano di Creta, creato da Efesto per far divertire Zeus. È il Golem di argilla creato a Praga dal rabbino Judah Loew, rubando le parole a Yahweh. È la donna che serve il the del ingegnoso Al-Jazari. È il cavaliere meccanico che Leonardo da Vinci disegnò con cura e metodo nei suoi codici. È Metropolis di Fritz Lang e il monologo di Blade Runner. È quel desiderio, quella speranza o quella paura di non sentirsi soli nell'universo. Forse la stessa malattia di ogni demiurgo.

Solo che adesso dietro questo sentimento non c'è più la ribellione, ma il disincanto. È il sospetto che stiamo camminando verso il postumano, con qualche angoscia addosso. E se il finale fosse questo? Non è Erica come noi, ma siamo noi come Erica.

Non sono le macchine a essere umane, ma siamo noi a essere cose. Quello che ci salva è solo la morte. Erica non la sente, non ne conosce il senso. Noi sì e per questo ci sentiamo vivi. È questo il segreto della foto di Maija.

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