L'incontro tra il governo e le Ong che operano nel salvataggio in mare dei clandestini si è concluso con un sostanziale fallimento. La maggior parte delle organizzazioni non governative o non si è presentata o non ha accettato - prima fra tutte «Medici senza frontiere» - le nuove condizioni per poter continuare gli interventi. E cioè: polizia armata a bordo per identificare i profughi, obbligo di rendere tracciabili rotte e posizioni, divieto di contattare gli scafisti e trasparenza nei finanziamenti che ricevono.
Un passo indietro: da quando le Ong hanno preso il comando dei soccorsi, il traffico di essere umani è aumentato a dismisura perché di fatto è come se fosse stato istituito un servizio taxi. Al punto che alcune procure sospettano (e indagano) che tra soccorritori e scafisti ci siano taciti accordi, veri e propri appuntamenti in mare aperto con destinazione successiva sempre e solo, come noto, un porto italiano.
Ognuno fa il suo lavoro, non commento i codici etici di «Medici senza frontiere», organizzazione privata impegnata in molti fronti caldi del mondo. Ma proprio perché «ognuno fa il suo lavoro» anche uno Stato e un governo - che hanno più titoli della migliore associazione di volontariato - devono fare il loro. Porre regole, che peraltro appaiono di assoluto buonsenso, non vuol dire impedire la solidarietà ma tutelare, oltre che i finanziatori delle Ong, l'intera collettività. Noi siamo grati al lavoro di questi signori, ma non è che loro possono decidere sulla nostra sicurezza nazionale. Semmai è sospetto chi rifiuta di farsi controllare, di rendere trasparente il proprio operato.
Ci sono di mezzo vite umane ma anche grandi farabutti (gli scafisti) e una montagna di soldi: quelli che incassano le mafie e quelli che spendiamo noi per fare fronte all'emergenza.Non è il momento, per le Ong, di fare i primi della classe o gli schizzinosi. I medici non hanno frontiere, gli Stati sì e bene fanno a controllarle.
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