Nell'era della libertà e dei diritti a tutti i costi non c'è più posto per i tabù. L'ultimo a cadere è quello sulla morte, diventata dolce, dignitosa e in nome della legge. I libertari che invocano meno Stato vogliono la morte col bollino di Stato, quanta ipocrisia. Senza accorgersi che per ogni tabù che si infrange ci sono delle conseguenze. Pericolose. In nome della legge sull'aborto, tanto per fare un esempio abbiamo infranto il tabù della vita. La legge doveva ridurre gli aborti ma ha fallito. Poi, scavalcando il Parlamento e la volontà popolare, la magistratura ha abbattuto i paletti della legge 40 sulla fecondazione assistita aprendo alla diagnosi preimpianto, al numero di ovuli fecondabili e impiantabili diventato infinito e alla fecondazione eterologa. Legittimando così altri giudici, che alle spalle del Parlamento hanno sdoganato i mammi chiudendo gli occhi davanti all'utero in affitto, perché in nome della legge si è deciso che la libertà di un individuo di avere un figlio vale più del diritto naturale di un bambino ad avere una mamma (e magari anche un papà che la mamma la ami davvero). E spalancando le porte all'eugenetica. Il legittimo desiderio di maternità e paternità è diventato l'inalienabile diritto ad avere un figlio sano, tanto che in Inghilterra esistono già i bambini con tre dna giacché quello mitocondriale, che deriva dalla madre (il caso Yara docet) e che porta con sé molte malattie genetiche, viene sfilato in laboratorio e sostituito con quello di una seconda madre, polverizzando ulteriormente il tabù del modello tradizionale di famiglia. Adesso tocca al diritto alla dolce morte, in nome della legge.
La nuova rupe Tarpea, da cui nell'antica Grecia si gettavano i corpicini dei bambini considerati inadatti alla guerra, si chiama Dat, odioso acronimo che sta per Dichiarazione anticipata di trattamento ma all'italiana, perché può essere disattesa - recita la legge - se «palesemente incongrua», se «le condizioni sono mutate» e se sono sopraggiunte nuove terapie «non prevedibili al momento della loro compilazione» e persino modificata o annullata anche verbalmente. La verità è che la vita diventa definitivamente merce «disponibile», mentre i corifei dell'eutanasia di Stato approvata in fretta e furia alla Camera (al Senato, chissà) si richiamano vigliaccamente ai corpi senza vita di dj Fabo e di Eluana Englaro, simulacri di una vita «indegna» di essere vissuta secondo la moda del momento, mutevole come la piazza che scelse Barabba e non Gesù.
Oggi tocca ai malati terminali, e se domani toccasse ai disabili l'etichetta di persone «indegne» di vivere? Chi decide? «Sarà la persona a scegliere se restare o meno nella gabbia di un corpo che lo rende prigioniero», gongola un parlamentare, lui sì prigioniero inconsapevole di un sistema che ci vuole tutti perfetti e abili che ci ostiniamo a chiamare civiltà ma che invece assomiglia sempre di più all'antica Sparta. Per una battaglia, quella contro l'estinzione del genere umano, persa combattendo a fianco del nemico. Ma per fortuna siamo liberi. Di morire.Felice Manti
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