Sembrano quiz più che processi. Con risposte mai definitive: più il frutto capriccioso di una lotteria che non il risultato meditato di una camera di consiglio. Sarà innocente o colpevole Alberto Stasi? E Denise Pipitone sarà ancora viva? In Italia i misteri giudiziari si aprono, ma non si chiudono. Si trascinano per anni e anni e spesso scompaiono dall'orizzonte solo per logoramento. Sciatteria, un sistema investigativo che annaspa, la roulette delle perizie che si smontano a vicenda. Così la cronaca nera offre sempre le stesse facce e gli stessi interrogativi.
L'ENIGMA IN CASERMA
Alla caserma Gamerra di Pisa muore un parà: Lele Scieri. Lo trovano ai piedi di una torretta dopo un paio di giorni. Forse è stato ucciso. O forse no: si è trattato di un incidente o di un suicidio. Tutto può essere. I giorni passano e la vicenda tiene banco sui giornali e nei telegiornali della sera, ma il mistero non si dirada. Il Giornale fa la sua piccola inchiesta e bussa alla porta della villetta che confina con il muro di cinta della caserma. Pochi metri in linea d'aria dalla scaletta fatale. Sorpresa, nessuno ha interrogato il padrone di casa che invece racconta: «Ho sentito in piena notte il rantolo del parà. Pensavo fosse un animale ferito, in agonia, solo dopo ho collegato i fatti». Possibile? Nell'Italia di oggi sviste, ritardi, gelosie dentro gli apparati investigativi sono purtroppo frequenti. E i risultati lo confermano. Troppi gialli si chiudono senza soluzione. Passano gli anni, la fine di Scieri resta un enigma. Ormai in archivio. Il papà, Corrado Scieri, si confida con il Giornale prima di morire col suo cruccio: «Ho aspettato con pazienza ma non so ancora cosa sia successo al mio Lele. L'hanno ammazzato o è scivolato per i fatti suoi? O che altro? Non lo so, so che ho fatto causa allo Stato per raccattare una miseria e che tutte le ipotesi restano valide». Un magistrato, uno di quelli che ha seguito il caso, chiede addirittura la collaborazione del Giornale: «Noi non siamo riusciti a far confessare i commilitoni. Abbiamo anche messo le microspie, c'è mancato poco per arrivare a sbrogliare la vicenda, ma alla fine ci siamo dovuti arrendere. Si potrebbe ripartire da lì, dai parà che erano con Scieri in quei giorni». Quindici anni non sono bastati. E adesso la verità è il classico ago nel pagliaio.
LA CONTESSA E I COMPLOTTI
Il tempo in Italia non basta mai. Diventa lo spazio per elucubrazioni e teorie dietrologiche che spesso dimenticano o perdono per strada dettagli grossi come macigni. La vicenda dell'Olgiata, con l'assassinio della contessa Alberica Filo della Torre, descrive bene questo complottismo fantasioso che è una delle cause di tanti fiaschi. Dunque, per anni e anni ci si è avvitati in complicati ragionamenti che chiamavano in causa gli 007, naturalmente deviati, le trame oblique degli agenti segreti, i segreti inconfessabili d'Italia con l'incrocio di altri omicidi. Poi il test del Dna, ripetuto per l'ennesima volta utilizzando le tecniche più evolute di oggi, riporta tutti sulla terra: il killer è Winston Manuel Reyes, il maggiordomo filippino. Come nei più classici, anzi scontati romanzi d'Ottocento. Si scopre, incredibile ma vero, che al telefono, intercettato, Winston aveva parlato con un altro filippino cercando di vendergli i gioielli rapinati alla contessa. La chiave del rebus era in un nastro. Ma nessuno l'aveva sbobinato. Da far cadere le braccia. Altro che spy story, era tutto semplice. Forse troppo per i nostri Maigret. «Di solito - spiega il generale Luciano Garofano - la spiegazione più banale è quella giusta. I delitti vengono commessi da partner o ex partner o persone che hanno rapporti diretti con le vittime. Insomma, uccide chi ha un movente per farlo». Elementare, e invece tante, troppe volte ci siamo imbattuti in inchieste che erano un susseguirsi di tornanti tortuosi. Si rincorrono teoremi, si trascurano le prove. «Quante volte - riprende Garofano - la scena del delitto viene inquinata in modo irreparabile. Capisco che questo errore fosse più facile dieci anni fa, ma che la stessa imperdonabile approssimazione si riveda adesso è inaccettabile. E invece l'egregio lavoro svolto dagli investigatori con la tuta bianca e la mascherina nel canalone in cui è stato trovato il corpo di Loris convive con la visita nel luogo della tragedia del presidente della regione Sicilia, con tanto di codazzo al seguito. Così si vanifica tutto». Il risultato, almeno agli occhi dell'opinione pubblica, è una giostra di indagati che restano sul banco dei presunti colpevoli a lungo, molto a lungo. Quasi a vita. Quasi colpevole: un po', solo un po' innocente; mezzo colpevole ma mezzo innocente. O peggio: colpevole travestito da innocente.
TRE PISTE NESSUNO IN CELLA
Serena Mollicone scompare il 1° giugno 2001 ad Arce, in provincia di Frosinone. Ha diciotto anni e forse voleva denunciare un traffico di droga in paese. Due giorni dopo, la trovano un boschetto. La testa infilata in un sacchetto, il corpo legato col nastro adesivo. Un omicidio atroce. Sospetti e retrosospetti. Piste diverse. Molta confusione. Il 6 febbraio 2003 finisce in manette Carmine Belli, carrozziere. Dopo 17 mesi torna libero. No, non è lui. E chi è stato allora? Il padre di Serena, Guglielmo Mollicone, è convinto che di mezzo ci sia qualche divisa infedele dell'Arma. Anche la Procura coltiva un dubbio del genere e nel 2011 brevetta il doppio movente. Si scrivono sei nomi nel registro degli indagati e si disegnano due scenari, più o meno alternativi, per spiegare quel che non si riesce a capire. Il quadro A, familiare, ci dice che a uccidere Serena sarebbe stato il suo fidanzatino dell'epoca Michele Fioretti. Il quadro B chiama in causa altri nomi e inquieta ancora di più perché tocca le istituzioni e sporca l'immagine dell'Arma. Dunque, il killer sarebbe Marco Mottola, figlio del maresciallo dei carabinieri Franco Mottola che in una prima fase aveva indagato sull'omicidio e quindi avrebbe depistato invece di cercare l'assassino che aveva in casa. Pare che all'epoca Mottola junior fosse coinvolto in un giro di spaccio e Serena fosse sul punto di rendere pubblico lo scandalo. Figlio e padre avrebbero trovato una sponda complice in Franco Suprano, altro sottufficiale dei carabinieri di Arce. Un verminaio, da far venire il mal di testa. Il problema è che a distanza di tre anni l'ipotesi A e l'ipotesi B restano sul tavolo degli inquirenti senza progressi. Il tempo si allunga, i ricordi dei protagonisti lentamente evaporano, l'indagine se possibile si complica. Perché dal nastro adesivo salta fuori un Dna. A chi apparterrà quel profilo? Si tenta uno screening a tappeto, come si è fatto a Bergamo per il caso Yara. Ma la fortuna non aiuta i pm di Cassino. Dall'esame di ben 272 provette non arriva la soluzione giusta. Insomma, siamo al quattordicesimo anno e il grappolo di indagati, arrestati, chiacchierati, è sempre più fitto. Con un movente A, un movente B e un Dna ignoto.
COLPEVOLI A METÀ
Le inchieste qualche volta si evolvono, come ad Arce, pur rimanendo sempre in attesa di una svolta che non arriva, in altre circostanze restano raggomitolate dentro lo stesso perimetro claustrofobico di indizi, prove, suggestioni. E lo scenario è ancora più surreale perché si parla sempre delle stesse cose, degli stessi oggetti, della stessa macchina di sangue, degli stessi gradini, dello stesso dispenser del sapone e della stessa bicicletta come a Garlasco. Alberto Stasi, il fidanzato di Chiara Poggi, è due volte innocente e poi colpevole, a un passo dalla condanna irrevocabile. Un'altalena inconcepibile, a bocce ferme, che scoraggia l'opinione pubblica. «Purtroppo questa oscillazione dipende in buona misura dalle perizie spesso discordanti. Nel 2008 dirigevo il Ris di Parma e noi eravamo giunti alla conclusione che Stasi mentisse quando diceva di essere entrato in casa e di aver calpestato il sangue di Chiara. Per noi era impossibile, ma il gip dispose un'altra perizia che diede risultati diversi e Stasi fu assolto. Il giudice avrebbe dovuto disporre un confronto fra i tecnici del Ris e i suoi esperti, ma lo ritenne superfluo e ci diede torto. Oggi le nuove perizie confermano i nostri vecchi risultati». E Stasi è sempre più in bilico. Rita Poggi, la madre di Chiara, ripete al Giornale da anni: «Mia figlia è morta sicuramente alle nove. Quando ha disinserito l'allarme. Mia figlia non ha più risposto al telefono, era una persona molto prudente, non apriva agli estranei, era la prima volta che rimaneva in casa da sola». I giudici ascoltano, ma non danno rilevanza a quel racconto che fissa l'orario della morte, le nove del mattino del 13 agosto 2007, e indica anche un responsabile: Alberto Stasi. Anzi, i magistrati si consegnano mani e piedi a un nugolo di esperti che litigano sulla tempistica del delitto e la spostano continuamente in un andirivieni confuso che dura anni e anni. Le nove. Le dieci. Le undici. Mezzogiorno. La scena del processo sembra la sala di un congresso scientifico. Si valutano la temperatura esterna e quella della stanze di casa Poggi e il microclima della tavernetta sottoterra e via elencando. Finché gli ultimi accertamenti riportano le lancette alle prime intuizioni e alla figura del fidanzato. Ex innocente, ormai quasi colpevole.
MOSTRI A TEMPO
È un carosello interminabile. Che può essere declinato anche al contrario: da presunto colpevole a innocente. È la parabola di Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta Cesaroni. La foto di Simonetta, in costume su una qualche spiaggia del litorale romano, è stata trasmessa per una ventina d'anni dai tg con il suo carico di angoscia. E con quel rimando alla toponomastica del terrore che gli italiani hanno imparato a memoria: via Poma. Il delitto di via Poma. Chi ha massacrato la ragazza il 7 agosto 1990? Anche qui le perizie hanno un ruolo determinante. In un festival dei mostri a tempo determinato, con scadenza contrattuale, davvero sconcertante: Pierino Vanacore, il portiere dello stabile che si uccide nel 2010 alla vigilia dell'ennesimo interrogatorio; Federico Valle, nipote dell'architetto Cesare Valle che all'epoca viveva nel palazzo. E poi lui, Raniero Busco. Busco viene condannato a 24 anni in primo grado. Poi è assolto in appello e scagionato infine dalla Cassazione il 26 febbraio 2014. Una girandola di nomi per un delitto senza colpevole.
IL NASTRO E LA BAMBINA
A volte non c'è nemmeno il morto. Dove sarà Denise Pipitone, sparita il 1° settembre 2004 mentre giocava a due passi da casa? È un enigma nazionale lungo quasi undici anni. E però anche qui i colpi di scena arrivano a scoppio ultraritardato. Si processa la sorellastra di Denise, Jessica Pulizzi, imputata di sequestro. E in aula si ascolta un'intercettazione choc: «Quannu eramu'nncasa, a mamma l'ha uccisa a Denise». Il dialogo fra Jessica e la sorella Alice è datato 11 ottobre 2004, ma salta fuori solo a fine 2014. In mezzo c'è un abisso di ipotesi, piste, balbettii investigativi. Perché quel nastro esce fuori solo ora? Dicono che la polizia abbia fatto miracoli ripulendo con tecniche ultrasofisticate quei nastri e togliendo rumori e fruscii che prima rendevano incomprensibili molti dialoghi. Compreso quello contenente la rivelazione esplosiva. «E però - spiega l'avvocato Giacomo Frazzitta, legale della mamma di Denise, Piera Maggio - le conversazioni di Jessica sembravano rimandare ad altre chiacchierate probabilmente in mano agli inquirenti. Occorreva cercare e poi riascoltare con grande pazienza. Applicando le nuove tecniche ultramoderne non disponibili nel 2004. Avremmo potuto risparmiare qualche anno».
In ogni caso la procura di Marsala ha aperto sì un fascicolo per omicidio ma non contro Anna Corona, la mamma di Jessica. No, si procede contro ignoti. Quasi un atto di sfiducia preventiva. E una resa a mani alzate davanti a uno dei crimini più dolorosi della storia d'Italia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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