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Quell'ipocrisia che uccide ancora Falcone

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«Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola» diceva Paolo Borsellino. Chi ha nemici travestiti da amici come Giovanni Falcone muore una volta all'anno, assieme alla verità sulla sua vita e sulla sua morte.

Il giudice antimafia saltò in aria alle 17.58 nello svincolo di Capaci un sabato di 27 anni fa insieme alla moglie e alla sua scorta. Fu Gioacchino La Barbera, oggi pentito, a farcire l'autostrada di tritolo e a dare il segnale a Giovanni Brusca e al suo commando «dalla sua Lancia Delta sulla via che costeggia l'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza del bar Johnnie Walker», come raccontò qualche anno fa a Repubblica. L'altro giorno però il pentito Maurizio Avola ha parlato ai pm di un misterioso artificiere americano legato al boss mafioso John Gotti a Palermo che avrebbe fatto da «consulente» ai macellai di Falcone. E ieri sul Fatto quotidiano il pm d'accusa nel processo sulla Trattativa Stato-mafia a Palermo Roberto Tartaglia ha tirato in ballo Silvio Berlusconi come tassello nella ricerca dei «cosiddetti mandanti esterni alla mafia delle stragi del 1992-1993» ipotizzando «una convergenza di interessi tra realtà diverse come Cosa Nostra e Servizi» in «uno scenario politico mutato», in cambio di «contropartite che non vediamo».

Ipotesi, illazioni, suggestioni. Non un bel modo di ricordare Falcone, lui che al famoso «terzo livello» non ha mai creduto e che detestava questo modo di lavorare. Già perché Giovanni Falcone oltre a Totò Riina aveva molti nemici in vita. Uno su tutti: Leoluca Orlando Cascio, come lo chiamava Francesco Cossiga, che a Falcone rimproverò di tenere segrete le prove contro i mandanti politici dei delitti di Carlo Alberto dalla Chiesa, Pio La Torre e Piersanti Mattarella (fratello del presidente della Repubblica Sergio, ndr). Per alcuni pentiti di estrema destra usati come agenti provocatori i mandanti erano Salvo Lima e Giulio Andreotti. Non c'erano prove e Falcone glissò ma l'accusa gli costò un «processo» al Csm che si concluse con un'assoluzione. Alle accuse di Orlando davanti a Michele Santoro rispondeva «questo è un modo di fare politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo». Qualcuno oggi avrebbe dovuto chiederne conto a Orlando, eppure il sindaco di Palermo è fuggito «perché qualcuno usa Falcone per fare comizi (sic!)» riferendosi a Matteo Salvini. «Polemiche incomprensibili, come le assenze di certa sinistra, un'offesa alla memoria di Falcone, non a me», ha risposto Salvini. Tra chi oggi piange Falcone mentre quando era vivo lo spellava c'è Repubblica, che qualche mese prima della strage lo definì un «ansioso esibizionista dominato da quell'impulso irrefrenabile a sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi tv», come un Marco Travaglio qualsiasi. E perché? Perché Falcone credeva nella separazione delle carriere e nella giustizia all'americana: «Non mando avvisi di garanzia come coltellate nella schiena, il rinvio a giudizio si chiede se c'è una ragionevole speranza di ottenere dal giudice una condanna», diceva. Per lui i pentiti erano personaggi «saldissimamente strutturati» che riferiscono ciò che sanno «sulla base di un loro preciso disegno», quindi meglio evitare «certi rubinetti delle dichiarazioni chiusi e poi riaperti».

Oggi tutti esaltano la Direzione nazionale antimafia, eppure al tempo per Magistratura democratica l'idea di Falcone era «una «ristrutturazione neo-autoritaria che arreca una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all'indipendenza della

magistratura». E i suoi colleghi, alcuni dei quali nel 1992 si sono bevuti le panzane di Vincenzo Scarantino, oggi anziché indagare in silenzio recapitano pizzini elettorali via Fatto. Il modo peggiore per ricordare Falcone.

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