Risiko poltrone ai tempi dei gialloverdi

Lega e M5S scoprono il piacere di occupare posti. Conte convoc un vertice su Cdp, però litigano tutti

Risiko poltrone ai tempi dei gialloverdi

Allo scoccare del primo mese e mezzo del primo governo sovranista dall'impronta populista, di cosa si parla? Di nomine. Chi l'avrebbe mai detto, visto che i protagonisti, grillini o leghisti, almeno a parole quando erano all'opposizione, hanno sempre considerato le nomine, pardon le poltrone, come la tentazione del diavolo. Invece, ora si parla solo di quello e il paradosso è che se ne parla invano. Tant'è che forse per la prima volta nella storia della Prima, della Seconda e della Terza Repubblica, un premier, cioè Giuseppe Conte, convoca un vertice di governo (e di maggioranza) sulle nomine per dimostrare che esiste, ma subito dopo è costretto a sconvocarlo perché l'intesa è ancora di là da venire. Nella Prima Repubblica, infatti, si aveva un po' di senso del pudore, di certe questioni si parlava a latere delle riunioni di maggioranza o in incontri, riservati, massimo a due, per poi in ogni caso trovare una soluzione su quella materia che, per pudicizia, era considerata scabrosa. Ma nell'epoca sovranista è stata messa al bando ogni ipocrisia, è venuta meno ogni inibizione e l'arte del compromesso latita.

Per cui si convoca un vertice sulle nomine e visto che non c'è accordo su quel pomo della discordia che è diventata la Cassa Depositi e Prestiti, salta. La ragione? Semplice: il ministro dell'Economia Tria non voleva essere messo in mezzo dalla coppia Salvini-Di Maio. «Io ho dei nomi avrebbe spiegato al premier Giuseppe Conte, che nella sua perenne mediazione interpreta il ruolo del vaso di coccio tra quelli di ferro se stanno bene, procediamo. Altrimenti non vengo in una riunione per farmi stritolare». Del resto il responsabile del Mef sa di avere dalla sua parte Mattarella, Draghi, Bruxelles, i mercati, le Fondazioni bancarie di Giuseppe Guzzetti: se si dimettesse succederebbe il finimondo. «È fortissimo osserva Renato Brunetta, che conosce bene il personaggio e ancor meglio i meccanismi che sovrintendono agli scontri di potere ma se cede una volta, cederà sempre». Ma è proprio quello che vogliono 5 Stelle e grillini, che stanno maturando una sorta di idiosincrasia verso «i tecnici». O meglio, l'hanno sempre avuta verso «i tecnici» degli altri, ma ora, come il richiamo della foresta, si sta risvegliando anche verso quelli che si sono portati in casa loro.

Poltrona contesa è quella del presidente della Cassa: Tria, Mattarella e mezzo establishment italiano vorrebbero in quel ruolo Dario Scannapieco, l'ultimo dei Ciampi boys. Di Maio, in un primo tempo, si sarebbe accontentato di avere Fabrizio Palermo direttore generale. Ma la grana l'ha fatta saltare Matteo Salvini che si è sentito non rappresentato. La strategia del Carroccio, messa in atto dal plenipotenziario Giancarlo Giorgetti, prima ha puntato ad avere un nome diverso da Scannapieco. Fallita l'operazione ha trovato un obiettivo comune con i grillini: nominare Palermo amministratore delegato. Giorgetti ha incontrato il candidato («è serio»), Davide Casaleggio (particolare di non poco conto) ha benedetto il tentativo e Di Maio ha acconsentito. Ma Tria da quell'orecchio continua a non sentirci. Così i leghisti hanno allargato la trattativa su altre «poltrone»: Rai, Ferrovie e, addirittura, sono entrati nel tempio di Tria, il Mef. «Lui spiega la leghista Cinzia Bonfrisco - vuole nel ruolo di direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, che ha lo stesso profilo di Scannapieco. Noi pensiamo che sia meglio Stefano Scalera». Un altro fronte per stringere l'assedio.

Mentre su Finanza, Economia e Rai, la maggioranza sovranista ha la possibilità di aumentare la sua influenza, su un'altra area delicata, come la giustizia, ha poche «chance». O così appare. Ieri i leghisti in Parlamento sono riusciti ad eleggere il loro primo giudice costituzionale, il prof. Luca Antonini. «Dicono che in passato ce ne sia stato un altro arrivato quasi per caso precisa con una punta d'ironia il sottosegretario all'Interno, Molteni ma a me non risulta». Sul Csm, invece, l'anima giustizialista non passerà. Facendo i conti sui nomi eletti dal Parlamento, coniugandoli con gli eletti dei togati (la corrente di Davigo non è andata bene), è probabile che il prossimo vicepresidente del Csm sia o vicino a Forza Italia, prof. Alessio Lanzi, o un esponente del Pd, Davide Ermini. Ma anche qui, specie nel Pd, la scelta di Ermini è arrivata dopo una tortuosa trattativa. Il segretario Martina prima ha pensato ad uno dei professori che ruotano attorno a Luciano Violante, Massimo Luciani. Poi è saltata fuori la candidatura dell'ex sindaco di Milano, Pisapia. Alla fine Luca Lotti, per conto di Renzi, proprio per evitare che andasse in Csm un nome che potenzialmente potesse ritrovarsi con Davigo e con i grillini, ha fatto scendere in pista l'attuale responsabile giustizia del pd, Ermini. «A conti fatti, qualsiasi sia il vicepresidente ha spiegato, Zanettin, esponente del Csm fino all'altro ieri e ora deputato di Forza Italia la svolta giustizialista nel Csm non ci sarà».

Salvo sorprese, naturalmente, perché la girandola delle nomine e del potere, in questi primi mesi dell'era sovranista, dimostra che può succedere di tutto. Non tutte le ciambelle escono fuori con il buco. E spesso le valutazioni sono diverse. Ad esempio il mago delle nomine leghiste, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, è convinto che Berlusconi abbia sbagliato a puntare sulla presidenza della commissione di vigilanza Rai per uno dei suoi. «È la dimostrazione ha spiegato a qualche amico che Forza Italia è allo sbando: gli avevamo proposto il Copasir che contava molto di più».

Ma c'è anche chi, dall'altra parte, è convinto che il plenipotenziario leghista nella grande partita delle nomine, pardon poltrone, stia segnando il passo (vedi, appunto, Cdp).

«Giancarlo è il terminale di troppe cose confida il vicepresidente dei deputati di Forza Italia, Occhiuto e sta perdendo il filo».

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