Cronache

La vera libertà non è anarchia, altrimenti diviene schiavitù

Il rave sul lago di Mezzano e i tragici fatti dell'Afghanistan ricordano il vero significato della parola libertà che è tipica dell’essere sociale che vive di e in relazione. Ciò che preoccupa è l’esaltazione e la volontà di imposizione del pensiero unico, in nome di una libertà che non libera ma annienta

La vera libertà non è anarchia, altrimenti diviene schiavitù

Dies amara valde. Mi riferisco alle due notizie principali di questi giorni: i talebani che riprendono Kabul e il rave non autorizzato nel viterbese, evento che ha sollevato polemiche e timori per il rischio contagi da Covid. Come alcuni hanno affermato, i due eventi sono legati da un filo rosso: il bisogno di libertà, vero o presunto. Il rischio è sempre lo stesso: ridurre la notizia ad occasione per riempire le colonne dei giornali o le ore di diretta che lasciano in tutti un senso di frustrazione e di impotenza. Proviamo, invece, a guardare questi eventi tragici di cronaca da una prospettiva diversa: il desiderio di cambiare le cose.

Partiamo dai fatti di casa nostra. Ci si domanda come sia stato possibile che centinaia di migliaia di persone si siano assembrate, abbiano trasportato droga, abbiano distrutto proprietà private e poi, tranquillamente, se ne siano tornati a casa. Per loro il Codice penale con i reati di disordine pubblico, lesione della proprietà privata, violenza, occupazione indebita di suolo pubblico e privato, diffusione dei contagi e via discorrendo, non esiste? Non possiamo però fermarci alla domanda: come è stato possibile? Fermarsi a questa domanda vorrebbe dire assecondare l’inerzia e legittimare l’illecito. Quanto accaduto a Valentano non doveva e non poteva proprio succedere, avendo lo Stato italiano tutti gli strumenti per prevenire e garantire i diritti dei singoli e della collettività. È necessario dirlo, altrimenti veicoliamo un messaggio pericoloso.

Proviamo a pensare quale messaggio noi adulti stiamo lanciando ai nostri giovani: è legittimato rubare, spacciare, ledere la proprietà privata, limitandosi i più a chiedere come ciò sia stato possibile, senza parallelamente invocare gli strumenti che lo Stato e le forze dell’ordine hanno già in mano per prevenire e impedire tutto ciò. Altre, e ben diverse, sono le domande che ci dobbiamo porre: quali sono gli strumenti legali a nostra disposizione? Li conosciamo? Li abbiamo applicati? E, se non sono stati applicati, chi è il soggetto che ha disatteso il suo dovere? Senza responsabilità personale continuiamo a legittimare questi gesti violenti. Attenzione: non si tratta di trovare il capro espiatorio, bensì di capire dove si è inceppato il sistema. Allora, veramente, la pena diventa redentiva e riabilitativa della persona, in primis, del sistema, in secundis.

Alla necessaria verifica degli strumenti e delle procedure deve seguire la responsabilità personale, altrimenti, nel limbo generalizzato, si legittima con l’impunità l’illecito.

Non c'è vera libertà se non al servizio del bene e della giustizia (CCC. § 1733). Un approccio da adulti responsabili ci impone, infatti, di dire ai nostri giovani che la libertà non è anarchia, altrimenti diviene schiavitù. Colpisce la risposta di una giovane partecipante al rave che, intervistata, ha affermato che la droga e il sesso senza freni sono la normalità anche nelle discoteche e nelle feste private. Ecco, la logica dell’adulto – adolescente ha ingannato questa ragazza e, con lei, i nostri giovani. Innanzitutto, i promotori del rave party non sono dei benefattori, quindi il lucro speculato per altro è certo. L’errore non legittima mai l’errore. Non si possono legalizzare i fiumi di droga e di violenza del rave party non autorizzato in virtù di quello che avviene, ahinoi, in altri luoghi con la sola differenza che si tratta di eventi autorizzati. Quello che più fa male al cuore è il fatto che questi giovani non si rendono conto che hanno rubato tempo prezioso che avrebbero potuto impiegare meglio, costruendo un futuro più libero per sè e per gli altri. Altro che libertà! Di quale libertà parliamo, se si nutre di violenza e sopruso? La libertà senza corresponsabilità è un falso. La libertà chiede socialità e quindi regole di convivenza, altrimenti si cade nel sopruso. E allora, mutatis mutandis, il passaggio dall’occupare un suolo pubblico e ledere la proprietà privata all’occupare un intero paese al grido di libertà è un attimo, non è una forzatura del pensiero. Si tratta sempre di libertà negata.

Impariamo a pensare in grande, con l’attenzione al particolare che si estende alla realtà complessiva, capiremo che certi eventi tragici, come quello della mamma che butta il figlio al di là del filo spinato, nell’estrema speranza che si salvi dal regime, sono la logica conseguenza di soprusi quotidiani, di una confusione imperante di chi si pone le domande che non scomodano nessuno.

Come è potuta Kabul finire in mano ai talebani? Quali interessi economici, quali filiere della speculazione hanno permesso ad un paese di tornare alla violenza dopo un tentativo di cammino democratico?

Ora siamo tutti quanti sdegnati, ma anche su questo fronte l’unica domanda è sempre la stessa: quali interessi terzi hanno agevolato questo ennesimo regime? Certamente, come sempre avviene, ora agiremo in emergenza, salvando e accogliendo chi possiamo. E’ un copione già scritto: fra una decina di giorni tutto finirà nel dimenticatoio mediatico, in una storia che è destinata a ripetersi ancora e ovunque. Eppure, basterebbe sospendere per un momento quella malsana voglia di strumentalizzare le tragedie, per ottenere un facile consenso, e porsi, invece, le domande scomode, ricordandoci che la libertà non è mai liberticidio.

Il significato della parola libertà, bene sommo per l’essere umano, è talvolta frainteso con la decisione di agire motu proprio, come monadi fuori controllo. Viceversa, la libertà è tipica dell’essere sociale che vive di e in relazione. Ciò che preoccupa è l’esaltazione e la volontà di imposizione del pensiero unico, in nome di una libertà che non libera ma annienta.

Le giovani generazioni dovrebbero recepire come si sta nella società fisica e virtuale con senso civico e come reagire con fermezza e rigore di fronte a fenomeni come la diffamazione, la violenza, il cyberbullismo, non scappando o piegandosi a queste logiche.

E’ una triste evidenza il fatto che, in questi ultimi anni, l’approccio ai grandi temi avviene con uno stile da “gossip”, a tratti violento, complici i social: la complessità della vita non può essere ridotta a slogan che parlano alla pancia della gente e montano la rabbia senza proporre alcuna ragionevole soluzione.

La libertà è anzitutto senso di responsabilità e quindi di corresponsabilità. Il mondo lo cambio io.

Questo è il punto.

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