Il vuoto a perdere? Non per ecologia ma per sussistenza

Il vuoto a perdere? Non per ecologia ma per sussistenza

C'era un tempo di bottiglie vuote riportate al bar in cambio di qualche spicciolo: birre, gassose, chinotti, qualche Coca-Cola dal gusto buono che non sapeva di lattina o di plastica. Erano anni di crisi petrolifera e di estati in bicicletta. La chiamavano austerità e pochi si interrogavano su come smaltire i rifiuti. Il problema, allora, era risparmiare. Il vetro come una risorsa da non spiegare, il vuoto a perdere come un patto di mercato tra il consumatore e il produttore. Tu mi riporti indietro la bottiglia vuota e non paghi il contenitore e io la riuso. Ci guadagniamo tutti e due e sui grandi numeri magari questo scambio fa pure la differenza. Era un'economia a misura d'uomo e dal retrogusto ancora antico, con le multinazionali in espansione ma le piccole imprese non ancora tiranneggiate dal fisco. Niente di virtuale a portata di mano, il low cost non era una start up ma un'abitudine dei tempi di guerra. Insomma, si riciclava per un ricordo di povertà. C'erano ancora i calzolai, un posto dove passare prima di buttare definitivamente le scarpe. Non per odio al consumismo, non per ideologia, ma per quel saggio proverbio per cui «si fa di necessità virtù». Sono ancora in pochi sotto il cielo di piombo degli anni '70 a preoccuparsi davvero per i danni all'ambiente e il ritorno alla natura è un lusso per i figli dei fiori. Si inquinava per miopia e per le masse che erano già entrate nella storia. I numeri stavano crescendo troppo in fretta. Sono passati anni e anni e si torna al vuoto a perdere. Non per povertà ma per troppo consumo. Non per libero scambio ma per suggerimento di legge.

Non è esattamente la stessa cosa. È un po' una sconfitta delle nostre virtù individuali. Beati i popoli che non hanno bisogno di leggi morali. Adesso l'arte di riciclare è pubblicata sulla Gazzetta ufficiale.

È il lungo viaggio delle bottiglie vuote.

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