L'inafferrabile Lessing tra schiettezza e libertà

Morta a 94 anni il premio nobel per la letteratura. Fu una vera anti-icona

L'inafferrabile Lessing tra schiettezza e libertà

La letteratura è una grande forma di compagnia per gli uomini. Non nasce per risolvere i loro problemi, però ha la forza di vincere l'estrema solitudine. Anche la situazione più inverosimile smette di esserlo quando trova le parole per dirsi. Il vero scrittore non dirà mai «sono solo»: dirà «siamo soli»: che è tutt'altra cosa. È perciò possibile per tutti noi incontrare, in un determinato scrittore, un prezioso compagno di cammino: a volte una guida autorevole, altre volte un amico allegro, o una persona capace di mostrarci quella parte di noi stessi che non abbiamo voglia di guardare: scomoda, ma da tener cara. La morte di Doris Lessing significa la perdita di uno di questi grandi compagni di strada: per me personalmente e, credo, per tutta la letteratura. Aveva 94 anni, ma i personaggi come lei muoiono sempre troppo presto. Nata nel 1919 in Iran e trasferitasi per diversi anni nell'odierno Zimbabwe (allora Rhodesia del Sud), visse l'ultima, lunga stagione del colonialismo britannico prima di migrare a Londra. Ebbe due mariti, entrambi i matrimoni durarono pochi anni (sospetto, da lettore dei suoi libri, che Doris non fosse tipo da matrimonio); da essi ebbe tre figli e un cognome, quello del primo marito, che la rese celebre. Ma soprattutto queste vicende fecero di lei una scrittrice. La sua vocazione letteraria non fu precocissima. E il suo primo libro, forse il più bello, L'erba canta, scritto a 31 anni dopo il fallimento di un matrimonio e della vita in Rhodesia, sa fortemente di autobiografia. Nel romanzo colpisce il disincanto con cui racconta una vita e delinea un personaggio che si può identificare con lei stessa. Non c'è un grammo di autogiustificazione, e le ragioni e i torti vengono messi crudamente sulla pagina, senza omettere alcun cattivo pensiero. La letteratura, per Doris, è un atto di giustizia. Se la vita scantona da questo imperativo, se la storia lo smentisce, fare letteratura significa rimetterlo in primo piano, anche a costo di molta crudeltà con gli altri e più ancora con se stessi. Questa crudeltà è il primo aspetto che rende riconoscibili i suoi libri. C'è chi si vuole scrittore e chi lo è per caso, ma in entrambe le opzioni occorre diventarlo, e diventarlo significa passare una porta (spesso la pubblicazione del primo libro è questa porta) oltre la quale essere scrittori diviene la nostra definizione, il modo in cui ci pensiamo. Non ho mai ben capito in che senso la Lessing fu a un certo punto comunista, o femminista. Lo fu, ma la sua essenza è stata essere una scrittrice alla quale comunismo e femminismo offrirono le armi giuste ma (come le stessa comprese bene) insufficienti a imbastire una narrazione del nostro mondo. Doris fu scrittrice a tal punto da fregarsene non solo della Regina e di ogni etichetta, ma anche del proprio status di letterata. Non a caso è la più vecchia vincitrice di premio Nobel (88 anni): gliel'hanno dato quando non se ne poteva più fare a meno. Molti suoi libri hanno costituito altrettante opere di culto. Il taccuino d'oro è un classico del femminismo, così come La brava terrorista è un ritratto realista e ironico di un tipo di personalità (quello dei terroristi) che legalismo e moralismo hanno impedito di conoscere per ciò che era, coprendoli sotto una colata di inintelligenza.

Ma non bisogna dimenticare che Lessing fu anche scrittrice di fantascienza: il che, forse più delle sue posizioni politiche, le allontanò i favori di una Reale Accademia che molti anni prima del 2007 sembrò propensa ad assegnarle il Nobel. È questa libertà il motivo del mio dispiacere per la sua scomparsa. Doris Lessing, dura e irriverente, non ha dato alcuna importanza al proprio curriculum, al proprio stato di servizio, alla propria immagine di scrittrice alta. È stata alta e bassa, e ha equanimemente affascinato e deluso tutti i lettori che vedevano in lei l'emblema di qualcosa. Ha scritto libri brutti o malriusciti, splendidi e terribili (come quello sulla madre) e capolavori come la già citata opera prima, come Il sogno più dolce, o Il quinto figlio. Se qualcuno mi chiede da dove iniziare a leggere Doris Lessing, io gli dico di partire proprio da quest'ultimo, il mio preferito. In un tempo in cui quotidiani e librerie si riempiono di riflessioni - necessarie - sul rapporto genitori-figli, il caso estremo, fantastico e insieme realista, che si narra ne Il quinto figlio ci è utile perché scavalca tutte le discussioni e le teorie psicopedagogiche, ponendo l'attenzione sull'aspetto ontologico. I nostri discorsi cercano sempre di addormentare la diversità: cercano punti di assimilazione, di normalizzazione. Ma se dopo quattro bellissimi figli ti nasce una specie di gnomo, o di elfo, hai voglia di interrogare psicologi e sociologi: l'intera vita della tua famiglia e di ciascuno dei suoi membri diventerà preda di un destino ineluttabile, di una deriva per affrontare la quale occorrerà ben altro che un consulto. Un vero scrittore è sempre come quel quinto figlio.

L'industria culturale lo vuole bello, elegante, garbato, profumato, e si preoccupa di gestire al meglio le sue intemperanze. Doris non fu sgarbata e nemmeno intemperante, ma sapeva che lo scrittore non ha nulla a che vedere con la sua rassicurante ma scialba icona. Adesso che non c'è più è nostro dovere ricordarlo.

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