nostro inviato a Mantova
Insicurezza, solitudine, spaesamento, ossessioni, emozioni nascoste. Sono i fili che intrecciano i racconti di Aimee Bender. Lei, invece, appare sicura, amichevole, solare, rilassata se non serena, diretta. Gli scrittori sono sempre il contrario di come li leggiamo. Aimee Bender è una scrittrice americana dell'ultima generazione, maestra nelle short stories. È nata nel '68 e vive a Los Angeles. È una delle autrici-culto di minimum fax, che l'ha portata a Mantova per presentare la raccolta di racconti con cui esordì negli Stati Uniti nel '98, La ragazza con la gonna in fiamme, che viene ora pubblicata dopo i suoi romanzi più famosi, tra cui Un segno invisibile e mio (che nel 2000 il Los Angeles Times incluse tra i migliori libri dell'anno) e L'inconfondibile tristezza della torta al limone. «Nel '96 inviai i miei primi racconti ad alcune riviste, e andò bene. Furono pubblicati da Harper's Bazaar, GQ... qualcuno finì su Granta e sulla Paris Review. Un giorno mi arrivò la lettera di un editor di Doubleday, William Thomas, oggi Editor-in-Chief, uno che segue Lethem, Colson Whitehead, uno potente... Comunque: aveva letto una mia cosa e mi chiese un romanzo...».
Anche in America l'editoria preferisce i romanzi ai racconti.
«Vendono di più e quindi sono più richiesti. Si pensa che il lettore medio, se decide di investire soldi e tempo su un libro, preferisca una storia lunga, con gli stessi personaggi, emotivamente più coinvolgente e che forse necessita di meno attenzione di quanta ne richieda una raccolta di racconti, che fa saltare la lettura di qua e di là...».
E lei scrisse un romanzo.
«No, riuscii a impormi. Il romanzo arrivò dopo, prima pubblicai i racconti di La ragazza con la gonna in fiamme».
Cioè questi. Racconti surreali, fantastici, «fiabe nere»: un ragazzo che regredisce lungo la storia dell'evoluzione, sotto gli occhi della fidanzata, e diventa uno scimpanzè, poi una tartaruga, una salamandra...
«O una donna che partorisce la propria madre, un uomo che torna dalla guerra senza labbra, o un folletto che si innamora di una sirena nei corridoi di un college...».
La critica americana dice che lei è figlia del postmoderno di Calvino e del minimalismo di Carver.
«Non so se sia vero. È vero però che Calvino e Carver sono stati i miei eroi. Del primo mi piace la sobrietà, la concisione, il fatto che dietro il suo realismo si nasconda un certo surrealismo... inaspettato. Il secondo invece mi ha insegnato a usare l'astrattezza per ottenere un forte impatto emotivo sul lettore. Calvino me lo fece conoscere un amico subito dopo l'università, e mi ha fatto staccare dal realismo di troppa letteratura americana, mi ha portato in un nuovo regno».
Il suo, di regno, è inquietante: storie di sesso innaturale, malattie, deformità, metamorfosi. Storie bellissime ma forti.
«Forse dipende dal fatto che sono cresciuta in una famiglia molto psicologica: mio padre è psichiatra, mia madre ballerina, due professioni che hanno a che fare con l'inconscio, una ha una forma di espressione verbale l'altra corporea. Le malattie, la bruttezza, i mutamenti fisici, nelle mie storie, sono fenomeni esteriori che rappresentano processi psicologici profondi, che non saprei descrivere a parole: così racconto il fuori per cercare di capire il dentro. È il grande insegnamento di Kafka. Che infatti è il mio autore preferito. Questo per quanto riguarda il cosa. Poi la differenza tra buona e cattiva narrativa la fa il come: lo stile, il linguaggio, la scrittura».
Chi, tra gli scrittori americani contemporanei, fa la differenza tra buona e cattiva narrativa?
«A me piacciono i libri di Sheila Heti (scrittrice canadese nata nel '76, ndr), che tra poco sarà pubblicata in Italia da Sellerio, Victor LaValle (del 1972, newyorkese, autore di short stories, inedito in Italia), George Saunders (da noi pubblicato da Einaudi e minimum fax), e poi, per citare un autore presente a Mantova, Nathan Englander... Quale è il link tra di loro e tra loro e me? Ci lega il fatto che il modo in cui raccontiamo una storia ci interessa forse più della storia stessa: è importante il linguaggio, la modulazione della voce, il suono delle parole... è il portato del post-moderno, non puramente realistico... Rieccoci al punto di partenza: anche in America siamo tutti figli di Calvino».
Figli litigiosi, a volte. Ieri Breat Easton Ellis, grande post-minimalista carveriano, con un tweet ha distrutto l'icona della vostra generazione, David Foster Wallace, dicendo che è sopravvalutato, che non ha il passo del grande scrittore... E la Rete poi lo ha ricoperto di insulti.
«Breat Eston Ellis è sempre stato... autodistruttivo, diciamo così. Sa come farsi del male. David Foster Wallce, invece, per me è uno scrittore incredibile. Era molto intelligente, e ha saputo prevedere molti sviluppi della psicologia collettiva. Però, dopo la sua morte, c'è stato uno sfruttamento eccessivo del suo nome, il suo suicidio ha scatenato una sorta di fascino morboso sulle persone. Si è parlato troppo di lui, spesso a sproposito.
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