Quando è arrivata la notizia della sua morte, non potevo crederci. Perché Arnoldo Foà, al di là di quei 97 anni inalberati con orgoglio ogni volta che appariva sia sul palco che in platea col suo riso sardonico che non risparmiava nulla e nessuno, sembrava possedesse il segreto di vivere in eterno. Qualche tempo fa, in uno studio televisivo, l'avevo sentito dire al collega Paolo Ferrari che ai familiari che lo invitavano a considerare la possibilità della sua fine aveva replicato inviperito: «Se nel dizionario esiste l'aggettivo immortale, perché non dovrebbe adattarsi a me?». Un'ipotesi che, conoscendolo, non andava scartata perché poggiava più sul reale che sull'astratto. Infatti, solo al cinema, che oltretutto lui stesso considerava una branca secondaria della sua sterminata attività, tra il 2008 e il 2010 aveva interpretato ben cinque film. Tra cui Le ombre rosse di Maselli e Dante's Inferno Documented di Boris Acosta. Senza peraltro dimenticare i suoi ultimi bellissimi reading come quel Moby Dick affrontato da maestro in vari festival che il pubblico giovane premiava ogni sera con un lunghissimo applauso.
Riassumere quindi in poche righe che cos'ha fatto di eccezionale quest'uomo poliedrico e affascinante che, quando alzava il tono lamentando lo scarso professionismo di certi sedicenti colleghi, diventava più temibile di Robespierre è poco meno di un'impresa. Dato che, fin dal '38, in spregio alle famigerate leggi razziali che, non fosse stato per il suo vulcanico temperamento, l'avrebbero stroncato sul nascere, subito lavorò sotto falso nome con prestigiose compagnie di giro come la Adani-Cimara e la Morelli-Stoppa. Riservandosi poi, l'8 settembre del '43, di comunicare agli italiani dalla radio alleata l'avvenuto armistizio. E questo è soltanto l'inizio di una carriera onnivora ed esaltante che lo vede tra l'altro nella Quinta colonna, l'unica pièce scritta da Hemingway agli ordini di Visconti che, subito dopo, lo volle negli anni d'oro del romano Teatro Eliseo nel memorabile Delitto e castigo e in quella Via del tabacco che a Milano irritò i benpensanti per lo spregiudicato ritratto di un'America malata di rabbia e di solitudine. Per non parlare del suo sodalizio col giovane Strehler e dei suoi esemplari assaggi di autori scomodi o discussi: dall'Annibal Caro degli Straccioni fino al Cristoforo Colombo di Claudel.
Era intanto nata la televisione, e chi meglio di lui, con la sua voce pastosa e insinuante corretta ad arte da quella maschera sdegnosa e beffarda adatta sia a un amoroso sui generis che al rictus mortale di un sicario, poteva esserne, a suo modo, prima l'araldo e poi il testimone? Dapprima impersonando da par suo il Sigognac del Capitan Fracassa, per fortuna conservato in una registrazione recuperata, poi nella bella versione dell'Isola del tesoro di Majano. Senza per questo trascurare un classico misconosciuto come La potenza delle tenebre di Tolstoj e addirittura, nel '64, la sua partecipazione a Nella terra di Don Chisciotte, il film-documento di Orson Welles di cui aveva vinto il tirannico dispotismo con una squillante risata.
Quella che riservava, per quanto riguarda le sue partner, soltanto alle attrici che sapevano recitare. Come Lea Massari, la quale grazie a lui in teatro debuttò nel '60 in Due sull'altalena. Mentre tra i registi, lui che tanti spettacoli aveva messo in scena con rara perizia, Foà preferiva quelli difficili come lui, per combatterli, diceva, sul suo stesso terreno. Come fece con Aldo Trionfo in una Tosca dove, impersonando Scarpia, prima lo snobbò e poi lo amò perché, come lui, «anche quel genovese amava le sfide estreme».
Ma non bisogna neppure dimenticare il Foà delizioso polemista che, in barba a quella che lui definiva una «deplorevole moda», continuava ad attaccare la consuetudine del teatro e del cinema italiano, propensi a scritturare attori stranieri. E soprattutto attrici, da lui considerate «degne di recitare solo la lista della spesa» contrastando così il passo ai veri professionisti del teatro italiano. Non si dimentica infatti una trasmissione televisiva in cui, appena presentato a Sylva Koscina, si congratulò con lei per due bellissime interpretazioni. Una sul piccolo schermo, dove era stata protagonista accanto ad Alberto Lionello di Topaze di Marcel Pagnol e l'altra in teatro, dove era stata partner di Vittorio Gassman in uno spettacolo composito in cui, incredibile ma vero, aveva raccolto entusiastiche critiche. «Tutto questo accade solo in Italia», aveva polemicamente esclamato con un grande sorriso.
È morto ieri a Roma Arnoldo Foà, grande protagonista della cultura del '900, attore di teatro, cinema, tv, regista, ma anche pittore e poeta. Aveva 97 anni: era nato a Ferrara il 24 gennaio 1916. I funerali laici si terranno lunedì nella Sala della Protomoteca del Campidoglio. Grande interprete teatrale, Foà ha lavorato anche al cinema, tra gli altri con Pietro Germi, Alessandro Blasetti, Orson Welles, Joseph Losey ed Ettore Scola. Prestigiosa la sua attività in scena con grandi registi (Visconti, Strelher, Menotti, Ronconi). Ha partecipato ad alcune delle più note produzioni della televisione italiana. Ha pubblicato diversi libri: tra i più recenti Recitare.
I miei primi 60 anni di teatro (Gremese, 1998) e Autobiografia di un artista burbero (Sellerio, 2010). Ha sempre affiancato all'attività artistica un concreto impegno nella vita civile e politica. Anni fa il suo nome è stato proposto per la nomina di senatore a vita.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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