È il romanzo davventura per eccellenza. Un archetipo. Tanto che inserirlo nel genere della narrativa per ragazzi è quasi fargli un torto, esattamente come appiccicargli letichetta del romanzo di formazione è quasi un tarpare le ali della sua forza narrativa, capace di parlare ai grandi e ai piccoli con una voce sempre uguale ma con sfumature diversamente percepibili.
E allora, di fronte al difficile compito di presentare un capolavoro come Lisola del tesoro di Robert Louis Stevenson, conviene abbandonare ogni opzione di ridurre il tutto alla semplicità, al lineare che spesso contraddistingue la narrazione pensata per i più giovani. Lo Stevenson che scrisse, nel 1881, i primi quindici capitoli de Lisola perso negli ozi di un cottage di campagna delle Highlands scozzesi per compiacere le fantasie del giovane figliastro Lloyd Osbourne (il ragazzo aveva disegnato per gioco la mappa), è lo stesso Stevenson che pubblicherà, di lì a cinque anni, Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde.
Così le vicende del giovane Jim Hawkins, che si trova coinvolto, suo malgrado, nelle oscure trame della ciurma del defunto capitano Flint e nel temerario tentativo di recuperare il tesoro del medesimo, sono «cucite» in un contesto narrativo adulto, in cui fanno capolino tutti i temi cari allautore.
Mentre lavventura fila a vele spiegate, trascinando il lettore, giocando con la suspense, facendogli divorare le pagine fra colpi di scena, assedi a fortini, agguati, rapimenti e liberazioni, sullo sfondo compaiono improvvisi, quasi sussurrati, insinuati, i fantasmi che ognuno di noi ha dovuto affrontare per entrare, e per sopravvivere, nellesistenza di adulto. In primis la fascinazione del male. Billy Bones, il pirata sfregiato che piomba alla «locanda dellAmmiraglio Benbow», gestita dai genitori del giovane Jim, è il primo di una serie di personaggi ambigui (dei quali il più riuscito è indubbiamente Long John Silver) che esercitano un misto di fascinazione e di terrore nel protagonista. Sono pirati, sono rozzi, feroci, ma con improvvisi slanci di umanità.
Soprattutto Silver, responsabile dellammutinamento dell«Hispaniola», la nave su cui Jim e i suoi protettori, i borghesissimi David Livesey e John Trelawney, stanno cercando di recuperare il bottino del vecchio Flint, è indubbiamente un cattivo, ma ha sempre un occhio di riguardo per il «ragazzo». Un occhio di riguardo a volte interessato, a volte sincero. Come se la visione dellinnocenza furba di Jim fosse qualcosa a cui nemmeno il peggior furfante può resistere. E questa simpatia diventa sempre più a doppio senso, come se sin da Lisola del tesoro Jekyll e Hyde si specchiassero luno nellaltro.
Soprattutto sono personaggi che fanno esplodere nelle pagine del romanzo lirrazionale, il non lineare, ciò che è fuori dagli schemi della logica, la scelta dimpulso che trasforma in un attimo laffetto in odio. Materializzano quella pulsione violenta che ci ha colto tutti tra ladolescenza e la pubertà, lasciano spazio allanarchia degli istinti con cui Jim è costretto a fare i conti. Sino ad arrivare allaperto confronto con la pazzia incarnata dal vecchio Ben Gunn, un membro della ciurma di Flint abbandonato sullisola alcuni anni prima, e che nel suo isolamento ha trovato una strana forma di «redenzione».
Ecco allora perché nessun adulto che affronti Lisola del tesoro, o che ci torni dopo tanti anni resta deluso, o si sente tradito. Ecco perché nessun ragazzo che affronti il romanzo fa una lettura inutile. Stevenson non allontana lamaro calice della crescita da chi legge: glielo fa bere senza addolcirlo. Ma mostra anche che crescere è un avventura, che al fondo cè davvero un tesoro. E che in questo percorso troveremo il bene anche dove non crediamo e che anche nellambiguità, da accettare ma non scusare, sta il senso profondo dellumano. Per questo generazioni e generazioni di lettori gli sono grate.
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