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Tim Parks: "La commedia dell'amore? Riesce meglio tra gli ostacoli"

Lo scrittore inglese pubblica "Il sesso è vietato", storia di una redenzione in un centro buddista. Dove tutto è vietato. E quindi tutto è più invitante

Tim Parks: "La commedia dell'amore? Riesce meglio tra gli ostacoli"

Rilascia lunghe interviste al Guardian, ma nemmeno le rilegge. Vive in Italia da oltre trent'anni ma resiste alla tentazione di parlarne male in modo gratuito, anche quando a chiederglielo è il Daily Mail. Insegna Tecniche di traduzione allo Iulm di Milano ma dopo aver tradotto Moravia, Tabucchi, Calvino e Calasso, ormai si scomoda solo per Leopardi e Machiavelli. Pubblica romanzi che nulla hanno da invidiare a Ian McEwan e Martin Amis, ma siccome non frequenta l'intellighenzia londinese, nessuno che conti lo scrive. Figlio di un pastore evangelico cresciuto a pane e Bibbia, guarisce da strani malori grazie alla meditazione buddista. Tim Parks è senza dubbio un atipico scrittore inglese. O forse tipico. Con gli inglesi non si sa mai.

Quel che è certo è che il 13 febbraio arriva il suo ultimo romanzo, The Server (diritti cinematografici già venduti), storia della giovane Beth, servitrice al centro buddista Dasgupta e delle sue infinite domande sul percome dell'esistenza. In un percorso narrativo che sposa Houellebecq e Mangia prega ama, troverà se stessa perdendosi nella meditazione. E nella scrittura. Anche se scrivere sarebbe vietato, al Dasgupta. Come fumare. E parlare. E cantare. E fare sesso. Ecco perché il titolo del romanzo è diventato Il sesso è vietato (trad. di Giovanna Granato, Bompiani, pagg. 320, euro 17,50). E viene spontaneo provocare Parks per capire se voglia cavalcare l'onda erotica della trilogia delle Cinquanta sfumature.

Ancora sesso?
«Il mio romanzo è stato pubblicato prima. E si svolge in un ritiro dove alcune manifestazioni di vita sono vietate e dunque anche il sesso. Comunque il segreto delle Cinquanta sfumature è ovvio».

E sarebbe...?
«Creare una cornice virtuosa per andare verso un sesso spinto senza sensi di colpa: facciamo sesso sadomaso, ma per salvare il nostro uomo, quindi siamo brave».

Mentre nel suo romanzo è tutto diverso.
«A Beth sono successi infortuni sentimentali e lei si è comportata malissimo. Invece di andare in analisi, sceglie un ritiro buddista. Ha poco più di vent'anni e trova il diario di un uomo della mia età. Volevo descrivere questa commedia tra i due, la strategia di avvicinamento».

E come si è trovato a narrare in prima persona femminile?
«Ho passato la maggior parte della mia vita con donne tra i venti e i trent'anni. Basta immedesimarsi nella voce di una persona. E poi se il lettore decide di crederci, ci crede. Come nelle Cinquanta sfumature: è una totale operazione di fantasia, però ha azzeccato in pieno una cosa che interessa moltissimo alla gente: la negoziazione del rapporto sessuale».

In un centro buddista ci è stato davvero, per guarire. Che cosa le ha lasciato?
«Ci si trova in un posto dove la metafisica sottostante sembra assurda, ma simultaneamente senti un vantaggio enorme dalla pratica del silenzio e della tenacia della meditazione. Allora ti dici: “Che cazzo faccio in questo posto dove sono tutti matti?”, ma anche: “Devo assolutamente rimanere in questo posto perché mi sta servendo”. Non mi chiamerei mai buddista, però medito un'ora al giorno la mattina da quattro anni e garantisco che non è come andare in palestra».

Pubblica in inglese, anche se vive in Italia. Londra non le avrebbe offerto più celebrità?
«Se fossi rimasto nella mischia delle feste avrei avuto altre occasioni e tutto sarebbe stato diverso».

È più importante essere in scena oppure online che scrivere bene?
«Il libro non è all'avanguardia della cultura. Sono diventati più importanti persino i surrogati della letteratura, come i festival, dove la gente va per sostituire l'esperienza di leggere. Uno scrittore è sotto pressione oggi molto più che vent'anni fa: ti tocca promuoverti mentre il sogno iniziale era scrivere, consegnare e andare a pensare a un altro libro».

C'è ancora qualcosa che noi italiani non abbiamo ancora capito di noi e voi stranieri ci potreste svelare?
«Già questa ansia è molto italiana. È affascinante ma è anche una trappola tremenda. Perché poi lo straniero ha la presunzione di rispondervi subito che qualcosa c'è e di spiegarvela».

È vero che lei non sente di aver vissuto finché non ha raccontato le sue esperienze?
«Sì, è come pensare di non aver fatto le vacanze se non se ne hanno le fotografie. Invece esiste un mondo senza parole che non per questo è scemo e senza pensiero. La verbalizzazione eccessiva è una malattia che ti ruba anche il tempo dell'esperienza».

Tipica degli scrittori?
«Tutta la nostra cultura ormai sostituisce il virtuale al reale. E tutta la nostra cultura soffre di quell'ossessione che è l'elogio della sofferenza come narrativa individuale.

I grandi romanzi spesso danno l'impressione che una vita sia importante perché c'è stata sofferenza. E io che non ho sofferto non sono nessuno. Una trappola per il lettore, che si ritrova a dire: “Anch'io devo soffrire così”. La narrativa è molto più nociva di quanto sembra».

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