La lodevole iniziativa del Sole 24 Ore che, con largo consenso, ha chiamato, attraverso un «Manifesto», numerosi uomini di pensiero a elaborare una «Costituente della cultura» non ha faticato ad affermarsi. Anzi, i dati che il giornale fornisce sono più che rassicuranti: quasi tutti condividono l’iniziativa. Un’indagine Cnel-Istat indica nel 78,8% gli italiani convinti del valore prevalente del paesaggio e del patrimonio culturale. L’argomento incontra favore e piace. E crea addirittura turbamento in quanti temono, per inadeguatezza, di essere esclusi, soprattutto a destra, per uno strano complesso di inferiorità. Vorrei rassicurarli: firmare un manifesto è facile. Ma è anche un comodo alibi ed è del tutto estraneo alla cultura. La cultura è intimamente solitaria e io conosco il nome dei migliori che, per dispetto, mai avrebbero firmato un manifesto. Nessun dubbio che quelli ai quali va la nostra maggiore considerazione non si sarebbero sporti in avanti neanche su sollecitazione. Sono certo che non avrei letto sotto l’ambizioso «Manifesto per una Costituente della cultura» la firma di Arturo Benedetti Michelangeli, di Carmelo Bene, di Gino De Dominicis e neanche di Leonardo Sciascia. Di quest’ultimo ricordo una illuminante affermazione: «Se io chiamo un uomo ingegnere, notaio, avvocato, architetto, quello si volta identificandosi nella denominazione per ciò che ha in comune con i suoi colleghi. Se qualcuno mi chiama “intellettuale” io non mi volto. Perché la peculiarità di un uomo di pensiero è ciò che lo distingue da un altro e non ciò che ha in comune».
Per questo le firme sotto i manifesti sono spesso sospette. Sempre rassicuranti. Ricordo quelle raccolte per un appello di Camilla Cederna contro il commissario Calabresi, ritenuto colpevole della morte dell’anarchico Pinelli: ottocento firmarono, non mancava quasi nessuno (ma certo Benedetti Michelangeli, Carmelo Bene, Sciascia). Solo uno si scusò: Carlo Ripa di Meana. Ora leggo nel «Manifesto» molte buone intenzioni, espresse in un linguaggio poverissimo e assai poco originale. Mi ha colpito di più la polemica di Andrea Scanzi sulla cattiva punteggiatura (di cui ho riconosciuto la responsabilità preterintenzionale di un mio articolo sul Giornale). Ecco piuttosto che con la «Costituente» io ricomincerei con la punteggiatura, con il rispetto del lessico, con la riduzione di parole straniere, con la cancellazione di termini molto usati nell’ambito dell’arte quali «giacimenti culturali», «fruizione», «filiera», «promozione», «valorizzazione», «sviluppo sostenibile» e perfino «scienza» applicata a «beni culturali» e «restauro», «ottica di medio-lungo periodo» e «saperi». Cosa c’è di meno scientifico di un comitato scientifico? Studiosi di diversa formazione, di diverso orientamento, di diverso metodo, di diverse convinzioni si riuniscono per discutere di una mostra o di un’iniziativa culturale affidata a curatori che hanno un’autonoma personale visione. A quale «scienza» si appelleranno? Forse un’operazione chirurgica si fa in cinque medici? E forse la ricerca scientifica avanza con metodi e procedimenti contrastanti od opposti? C’è dunque una «convenzione» sulla scientificità e perfino sull’«universalità» della cultura e di quelle che gli antropologi hanno stabilito chiamarsi «scienze umane»? E sia?
Tutta questa frenesia intorno alla cultura mi sembra viziata da una necessità economica, prima che umana, cioè individuale. Le persone più colte che ho incontrato erano generalmente povere e indifferenti al denaro. Leggo invece Armando Massarenti, e osservo la finalità del «Manifesto» indirizzato verso il legittimo obiettivo di un rilancio dell’economia: «Due dati dovrebbero impressionarci come italiani, se vogliamo vederci (anzi, diciamo pure, venderci) come cittadini del mondo. Il primo è quello che riguarda la strepitosa immagine positiva che ancora siamo in grado di diffondere all’estero... perché? Perché nonostante tutto il nostro brand va fortissimo. E di che cosa è fatto questo brand? Vi sembrerà strano, ma la parola che lo riassume è: Cultura». Massarenti, pur prendendo le distanze, continua con il brand e fornisce utili esempi. Ecco: già questo m’insospettisce. Poi, nella stessa pagina, leggo: «La cultura fattura» e al centro della pagina vedo l’illustrazione di una delle opere più ovvie dell’arte di regime che è la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto. Mi basta questo per pensare: non è il mio «Manifesto», ritrovando il disappunto di Sciascia. E non basta. In alto vedo un posacenere di Andrea Camilleri, di cui resta solo il fumo della sigaretta; e mi sembra che la cosa più vitale sia la «banana» dei Fratelli Orsero, pubblicità di una misteriosa TV, che nessuno vedrà mai. Intanto le firme aumentano e il Camilleri che scrive in prima pagina, con cattivo costume, è recensito in quarta. Giorgio Dell’Arti (che sicuramente non ha firmato il «Manifesto») ci invia provvidenzialmente le «Ultime da Babele».
Poi (dall’inserto del Sole 24 Ore dell’11 marzo) leggo l’incipit dell’intervento di Claudio Mocci, e prendo paura: «Il secondo dei punti che illustrano il “Manifesto per una Costituente della cultura” segnala la necessità di sviluppare strategie di lungo periodo tornando ad assegnare un ruolo da protagonisti alle Autonomie locali e alle forze vive della società civile presenti sul territorio». Affettuosamente dico a Mocci: eliminiamo dai vocabolari le parole «strategia», «lungo periodo», «ruolo da protagonisti», «società civile», «territorio», tutte parole morte. Per quanto riguarda l’oggetto del «Manifesto» osservo la cacofonica ripetizione della preposizione «per»: «per una Costituente», «per la cultura». Suggerirei il complemento di specificazione «della». Non migliora la conclusione. Dove si parla di «studiare in profondità (esiste forse uno studiare in superficie?) la sostenibilità di lungo periodo (ritorna) della rifunzionalizzazione di siti di valore storico-artistico che, molto spesso, passa per una riorganizzazione dell’offerta culturale e per una forte innovazione delle modalità gestionali e di management» si soffre. Andrebbero espunte: «sostenibilità», «rifunzionalizzazione», «offerta culturale», «forte innovazione», «modalità gestionali», «management». Che fare? Che dire? Si salvano i siti perché, per una volta, non internet, ma «di valore storico-artistico». Continuando a sfogliare, i poveri amici Riccardo Viale e Giovanni Puglisi fanno riflessioni, non sempre inedite, sotto l’occhiello Brand Italia/1 e Brand Italia/2. Una pagina dedicata a Bene lamenta «il vuoto dopo Carmelo» ma non lo colma.
Ed eccoci proiettati verso l’inserto di domenica scorsa. La cultura è diventata unità di misura. Nicola Piovani pensosamente si interroga davanti a un dilemma mai posto: «Dovremmo sostenere Moccia e non Shakespeare?». Non mancando di dirci che «la condizione della cultura italiana ha bisogno di una bonifica culturale prima ancora di nuovi investimenti per altro sacrosanti». Sarà. Non vorrei chiedere a Piovani cosa sia per lui organizzazione della cultura italiana, la quale esiste in quanto non si organizza, non essendo un partito, e si dà come si dà. Per l’edizione degli Essais di Montaigne curata da Fausta Garavini che organizzazione crede serva, Piovani? E per le ricerche del Centro Pio Rajna quali suggerimenti avrebbe? Intanto non manca la prevedibile battuta «sarebbe come confondere l’informazione con Minzolini». Minzolini, come ogni giornalista, si informa di quello che sa e di quello che pensa.
Comunque, dall’inserto del Sole 24 Ore apprendiamo che siamo a quota tremila e leggiamo una sintesi del «dibattito sul Manifesto giorno per giorno». Ancora dibattito? «La cultura appare in questa prospettiva necessaria allo sviluppo». Non mi pare una novità. Soprattutto quando si argomenta che «per cultura» deve intendersi una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza. Certo, occorre dare un tono al «Manifesto», ma l’impostazione mi pare molto generica, e alcuni dei cardini sinonimi, quindi ripetizioni. Qual è la differenza fra «ricerca scientifica» e «conoscenza»? Ma non voglio insistere. La buona volontà dei manifestanti è chiara, nonostante Pistoletto e nonostante la dolorosa polemica inevitabile dopo che, sul versante dell’arte antica, il Sole 24 Ore rivelò al mondo come nuovo Caravaggio un discutibile (letteralmente) dipinto di circa trent’anni dopo, proprietà di un noto mercante londinese. Si trattava di cultura dell’economia o di economia della cultura? Al convegno di qualche settimana fa pochissimi hanno riconosciuto l’autografia caravaggesca del dipinto, respinta dai maggiori studiosi.
Resta quindi in me, nel merito del metodo, qualche perplessità sulla necessità del «Manifesto» e sulla corsa a firmarlo. Ritornerei alla cultura come lettura. Come dubbio, come convinzione più individuale che collettiva. Non mi spaccerei in proclami, e, piuttosto che improprie sintesi o rassicuranti accostamenti, farei una sola proposta istituzionale: quella di far coincidere economia e cultura in un solo Ministero: il Ministero del Tesoro dei Beni Culturali. Inevitabilmente esso dovrebbe assorbire l’Istruzione primaria e secondaria, l’Università, il Turismo (come Sviluppo economico), i Lavori pubblici (per evitare mostri come l’Ara pacis alla quale la cultura istituzionale diede la sua beffarda benedizione).
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