Quel filo sottile... nella notte di Halloween

Dolcetto o scherzetto? IlGiornale.it vi regala un terrificante racconto da leggere tutto d'un fiato

Quel filo sottile... nella notte di Halloween

Il professor Francesco Agostini infilò le scale dell’entrata nord del grande ospedale a passo di corsa. La sua salita, zampettante, era resa ridicola dal lungo mantello rosso e dal costume da Dracula, preso a nolo e troppo stretto, che evidenziava la sua pancetta. In una situazione diversa si sarebbe sentito imbarazzatissimo. Ma ora non ne aveva il tempo.

La telefonata era arrivata improvvisa, dolorosa. Lo aveva chiamato Fiammetta la figlia del suo vecchio maestro, il grande latinista Ezio Scamandro. Un malore improvviso, il cuore, poche speranze, terapia intensiva. Non si era nemmeno chiesto perché Fiammetta avesse chiamato proprio lui, era corso fuori dalla festa di Halloween dell’istituto di lingue antiche (lui preferiva chiamarla parentalia alla latina) e si era precipitato. Ora, col cuore in gola, tasteggiava furiosamente sui pulsanti dell’ascensore. Voleva arrivare da Scamandro prima di… Prima di lei, la morte. Per fare o dire cosa? Non lo sapeva, ma Scamandro gli aveva insegnato tante di quelle cose, era stato così paziente. Quasi un padre. Così appena le porte si aprirono si scaraventò all’interno, urtando la signorina che era già nella cabina. Era piccola e fragile, pelle e ossa, la spedì a sbattere contro la parete di fondo. Quasi senza guardarla biascicò uno “scusi”. Era graziosa e doveva essere in costume pure, lei anche se non capiva esattamente da cosa . Poi mentre lui palpitava e sbatteva il piede in attesa di arrivare al quinto piano – “Stanza 513… Stanza 513 in fondo al corridoio… non lo agitare mi raccomando…” - l’ascensore si bloccò. La cabina oscillò per un attimo e poi più nulla. L’idea, agghiacciante, si fece subito strada nella sua mente: “Cazzo, non è possibile. Bloccati di notte in ascensore, non ce la farò mai. No!”.

Afferrò con tutte le sue forze le due porte metalliche e provò a scostarle. Le nocche delle mani divennero bianche per lo sforzo ma quando riuscì ad aprirle, per pochi millimetri, si accorse che erano proprio a metà tra due piani. Senza rimedio.

La ragazza con molta più calma si limitò a premere il tasto d’emergenza e poi a guardare il suo orologio. Un orologio davvero strano pensò Agostini. Le lancette erano a forma di piccole ossa. Lei alzò dal quadrante i suoi occhi di un nero profondo e fissò il professore: “Sono in ritardo anche io”.

“Io devo andare da una persona gravemente malata, temo di non fare in tempo a parlargli. È orribile è stato il mio maestro, gli devo tutto”.

“Io vado spesso da persone gravemente malate… Spesso, e arrivo sempre in tempo”. Lo disse con un tono né allegro né triste, con un tono dolce ma in, un certo qual modo, irremovibile.

Solo allora Agostini si concentrò per la prima volta sulla sua minuta persona, sul costume che portava addosso: era una specie di peplo, adattato a coprire anche la testa, in mano teneva delle strane cesoie minutamente istoriate. Il viso era pallidissimo, i piedi incredibilmente nudi, l’unico oggetto moderno quello strambo orologio d’oro con le lancette a forma di ossa. E ora la ragazza lo stava di nuovo fissando. “Questa volta però anche io, incredibilmente rischio di far tardi… non capita mai”. Un’idea chiarissima si fece strada nella mente del professore che, però, cercò di scacciarla e di aggrapparsi alla normalità. “Viene da una festa di Halloween anche lei? Buffa l’idea di mascherarsi da una delle Parche… Scommetto che fa l’infermiera qui”.

“Preferisco il termine greco Moire. E poi non “una“ Moira. Io sono Atropo, colei che taglia il filo della vita. Se vuole definirla una questione infermieristica…”. Tornò a far cadere lo sguardo sull’orologio.

“Atropo l’inflessibile con un orologio… ma via questa parte del trucco è ridicola”.

“È un problema suo professor Agostini. Io sono una dea ed è lei a decidere, vedendomi, il mio aspetto. Avrei potuto anche assumere quello più banale di una bella signora con la falce… In effetti la cosa strana è che lei mi veda. Leggo qui nel tempo visore che lei morirà tra un bel po’. Il 15 marzo… Ma forse preferisce non saperlo. Scusi! Il fatto è che lei non dovrebbe vedermi e nemmeno avrebbe dovuto fermarsi questo ascensore. Ora ho troppe vite da prendere e troppo poco tempo”. Nel dirlo diede dei veloci colpi di cesoie nell’aria, come a tagliare i fili che legano anima e corpo.

Agostini smise di ragionare in termini razionali, si aggrappò alla speranza che gli dava quella matta secca secca (ma in fondo carina). “Senti Atropo, ti prego, allora lascia stare per stavolta Ezio Scamandro. Ha un sacco di libri da scrivere, lezioni da fare, i nipoti, ti prego…”. Arrivò persino a dire: “piuttosto prendi me”.

La ragazza rise: “Prenderti in anticipo quando per la prima volta negli ultimi dieci secoli sono in ritardo. Che sciocchino. Però non posso fare sconti… E poi cosa cambia, tanto prima o poi da Scamandro o da te passo e zac! Cosa cambia, vi lamentate sempre”.

Ma Agostini non mollava, aveva preso il sorriso per un buon indizio: “Ti prego, in ginocchio!”.

Atropo sbuffò: “E va bene però ci sono delle regole. Io ti faccio un indovinello, se tu azzecchi, oggi, Scamandro salta il giro. Se no vi porto via tutti e due a costo di infrangere le regole, che tanto sto già infrangendo”. Agostini deglutì e poi disse: “Va bene”. Sapeva da tanti miti che con gli dei si perde sempre, ma voleva tentare.

La bocca di Atropo si trasformò in un ghigno: “Mi hai dato della Parca e allora, adesso, visto che sei così irrispettoso mi dici qual è il mio nome nelle antiche lingue nordiche… O il tuo cammino mortale finisce qui”.

E in quel mentre l’ascensore riprese a muoversi: “Spicciati hai tempo sino all’apertura delle porte”.

Francesco Agostini chinò lo sguardo verso il basso e poi con un filo di voce: “Tu tra le norne sei skuld colei che è terza come recita l’Edda e come mi insegnò Scamandro”.

Atropo gli si avvicinò in un lampo, lo afferrò sollevandolo con una mano sola: “Bravo il tuo maestro, ti ha insegnato bene”. Gli diede un bacio (che sapeva di foglie secche) e, appena la porta si aprì, sparì in un lampo scaraventandolo a terra. Agostini si rialzò goffamente e, sempre vestito da Dracula, si precipitò verso la camera 513. Quando entrò Fiammetta era vicina al grande antichista Scamandro, gli teneva la mano con la destra, nella sinistra aveva l’Eneide e gliela stava sommessamente leggendo. Agostini si avvicinò, gli sembrava che il suo maestro non stesse respirando. Si accostò silenzioso dall’altro lato.

Scamandro aprì gli occhi.

Disse con un fil di voce: “Sei venuto a trovarmi? Tranquillo, non muoio la cattedra non te la lascio, soprattutto vestito cosi”. E nel dirlo sulle labbra gli si dipinse un sorriso. Sottile come un filo, tessuto dalle zampette di un ragno. Un filo che brilli in una notte di luna.

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