Gusti, manie, stroncature dell'"infernale" Welles

L'amore-odio per la buona tavola e per le belle donne, il precoce talento di illusionista, i giudizi sferzanti. Ecco le confessioni del mago del cinema

Gusti, manie, stroncature dell'"infernale" Welles

Di statura Orson Welles superava il metro e novanta. Invecchiando, l'asticella si abbassò di qualche centimetro, ma, si lamentava, «continuo a perdere collo. È la forza di gravità. Come Elizabeth Taylor. Le orecchie le toccano le spalle. Ed è ancora giovane! Dove sarà la sua faccia quando avrà la mia età? Nell'ombelico?». L'altro suo cruccio era il peso, una stazza divenuta nel tempo mastodontica, un piccolo pachiderma che per spostarsi usava la sedia a rotelle come un taxi privato. Stando a Gore Vidal, scrittore, esteta e, come il suo arcinemico Truman Capote, artista del pettegolezzo, per vestirsi riciclava le tende di casa: ci attaccava il bavero, le tasche, i bottoni e dava loro la parvenza dell'abito... Eternamente a dieta per ordine dei medici, vi si assoggettava nel segno della finzione. Nel 1983, dopo un ritorno trionfale al Festival di Cannes, a cena accettò per sé acqua minerale e pesce al limone, ma obbligò il suo anfitrione a ordinare di tutto e a fargliene, mangiando, la descrizione. Tornato in albergo, il Carlton, svegliò nel cuore della notte lo chef e si fece portare in camera quattro secondi e sette contorni.

Nato nel 1915, a ventitré anni Welles era già sulla copertina di Time , rivelazione del Mercury Theatre da lui fondato, e a venticinque aveva già girato Quarto potere , una pellicola che è rimasta nella storia del cinema. Dopo di allora, e per i successivi quarant'anni, diresse una dozzina di film, ne portò a termine la metà, fu vittima della propria genialità e di una bulimia del vivere che gli faceva accumulare progetti e debiti, viaggi, parties e amori. Virginia Nicholson, che fu la sua prima moglie, definì il suo ego «schiacciante». Le donne, si giustificava Orson, «sono un'altra razza. Cambiano sempre, come la luna. Devi rappresentare solidità e affetto. Devi essere un'ancora. Anche se non lo sei. Non puoi dire la verità. Devi mentire e fingere. In tutta la mia vita non sono mai stato assieme a una donna con cui non dovessi fingere. Non potevo mai essere veramente me stesso».

A fingere aveva cominciato sin da ragazzo, illusionista dilettante già al liceo. La guerra dei mondi , cronaca «in diretta» di una simulata invasione marziana, fu il programma radiofonico con cui, nel 1938, scatenò il panico fra milioni di americani e F come falso si intitolò il suo ultimo film, incentrato su un celebre falsario d'arte. Come attore, il suo ruolo più famoso resta quello di Harry Line, ne Il terzo uomo di Carol Reed, dove appare solo alla fine, un'ombra che improvvisamente prende luce, un sorriso malizioso che nasconde un traffico omicida, la maschera seducente e rassicurante di un mercante di morte. In Europa fu il più grande successo del dopoguerra: «Faceva riferimento a qualcosa che gli europei potevano capire: avevano vissuto l'inferno; la guerra, il cinismo, la borsa nera, tutto. Harry Line rappresentava il loro passato, in un certo senso: il loro lato oscuro. Oscuro, ma affascinante». Fu allora che Welles smise si essere un moralista all'americana, di quelli che si rifiutavano «di stringere la mano» a chi non aveva combattuto il nazismo o, peggio, aveva collaborato. «Quando capii più cose, smisi di giudicare. Perché loro dovevano proteggere la loro vita e quella dei loro figli, mentre da noi, negli Stati Uniti, si proteggevano le piscine e i contratti con la Metro. Non sarei andato io a dirgli, da americano, che avevano sbagliato».

Nel centenario della nascita, Adelphi manda ora in libreria A pranzo con Orson (pagg. 340, euro 26, a cura di Peter Biskind, traduzione di Mariagrazia Gini, con uno scritto di Tatti Sanguineti), ovvero la registrazione delle conversazioni che settimanalmente, per circa tre anni, Henry Jaglom, attore, regista e sceneggiatore, ebbe con Welles al tavolo di un ristorante, il Ma Maison di Los Angeles. Un decennio prima, anche la loro amicizia era nata all'insegna della finzione, visto che per il suo film di esordio Henry aveva scritturato Orson per il ruolo di un illusionista. «È questo il suo personaggio» gli aveva detto. «Ma io sono un illusionista» era stata la risposta. «Potrò mettermi il mantello?». «Certo». «Va bene. Ci sto».

Nel tempo, il rapporto si cementò e Jaglom divenne qualcosa di più e di diverso di un collega e/o un ammiratore: una sorta di confessore, produttore, cassa di risonanza e agente. «Il mago del mago» lo definisce il curatore del libro, Peter Biskind, «pronto a trasformare in oro una carriera finita in niente a costo di rubare, truffare, mentire... più o meno in senso figurato. Lo rialzò da terra e gli tolse la polvere di dosso; lucidò instancabilmente la sua immagine; smacchiò la sua leggenda». Lo illuse, insomma, e si illuse, perché nonostante tutti gli sforzi, dopo F come falso , che è del 1973, Welles non girò più, onorato da tutti, ma da tutti respinto. Quando morì d'infarto, il 10 ottobre del 1985, era reduce dall'ennesima delusione, la versione cinematografica di The Cradle Will Rock arenatasi con il ritiro del finanziatore principale. Eppure, morì con la macchina per scrivere in grembo, una nuova sceneggiatura nel carrello. «Sono quarant'anni che mi nascondo un segreto - a me stesso, non agli altri. Il segreto è che odio il mondo del cinema. A me non piacciono i film. Mi piace farli».

A pranzo con Orson è naturalmente una miniera di battute e di giudizi sferzanti, da Marlon Brando, «un salsiccione, una scarpa fatta di carne», a Woody Allen, «fisicamente ripugnante», a Humprey Bogart, «un vigliacco»... La lista è lunga, un vero e proprio fuoco d'artificio, ma sarebbe un errore vederci il meglio del libro. Il meglio è nel gigionismo wellesiano applicato alla vita, al conformismo della morale corrente: «Se penso che una persona sia brutta, non mi è nemmeno simpatica. Sai, io non credo nell'eguaglianza fra le razze e tra i popoli». «Non ho mai avuto nessun problema con gli estremisti di destra. Li ho sempre trovati simpaticissimi sotto ogni aspetto, a parte la politica. Di solito sono meglio di quelli di sinistra». E ancora: « Il padrino è l'esaltazione di una banda di straccioni che non è mai esistita. Il gangster di classe fu un'invenzione di Hollywood. Il codice d'onore e tante boiate... Tutta roba inventata di sana pianta». «Gli autori a Hollywood, Faulkner eccetera, siccome non volevano essere surclassati dai colleghi, lavoravano sodo. Più di tutti quelli che oggi vogliono fare i registi senza aver mai combinato altro che guardare film dall'età di otto anni, senza aver mai avuto un'esperienza di vita. O senza aver mai conosciuto da vicino nessuna cultura che non sia quella cinematografica». «Gli intellettuali sono molli: amano il potere. Fanno crocchio attorno la papavero di turno e iniziano a trovare giustificazioni al suo potere». «Non mi interessa l'artista, mi interessa la sua opera. E più rivela, meno mi piace. Mettiamola così: non mi dà fastidio vedere l'artista nudo, ma detesto vederlo mentre si spoglia. Se vuoi farmi vedere l'uccello, va benissimo. Ma non fare lo strip».

In questa esplosione di scorrettezze, intuizioni, provocazioni, c'è spazio anche per la nostalgia e i sensi di colpa. Il suo ricordo di Rita Hayworth è esemplare, al tempo in cui lui era «pazzo di un cessetto italiano che mi tirava scemo», lei stava all Hôtel du Cap, sulla Costa Azzurra, e lo amava ancora. «Arrivai all'hotel, hai presente? Quell'hotel. Andai su nell'unica, grande suite. Quella suite. Lei venne ad aprire la porta in negligé, con i capelli sciolti, fantastica. C'erano fiori dappertutto. Le finestre davano sulla terrazza davanti al Mediterraneo. E il profumo: quel profumo. Irresistibile». «Tienimi stretta mentre dormo» gli dice Rita piangendo dopo che Orson le ha confessato di amare un'altra: «almeno questa sera resta con me». Così, passano la notte insieme. «La tenni stretta. E nient'altro. Controllavo l'orologio con l'angolo dell'occhio per vedere se sarei riuscito a tornare a Roma con il volo del mattino. Ripartii l'indomani».

Il «cessetto» italiano era Lea Padovani e, come in un remake alla Totò e Peppino, anni dopo quella passione è un'eco rovesciata in Pane amore e...

, dove il maresciallo Carotenuto Antonio, ovvero De Sica, dopo aver spasimato per La bersagliera , ovvero Sophia Loren, si arrende al profumo di donna Violante Ruotolo, Lea Padovani, appunto. «Notti d'Oriente?» le chiede: «Lavanda Cannavale» è la risposta. Dal cilindro degli illusionisti non sempre i conigli pareggiano le colombe e il confine fra il genio e la stupidità è a volte sottilissimo.

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