I "fiori del male" d'America del vagabondo Sandburg

Escono in Italia i "Chicago Poems": versi profetici e ribelli, così poco allineati da finire nell’oblio

I "fiori del male" d'America del vagabondo Sandburg

Marilyn Monroe, musa per tanti artisti, aveva a sua volta un unico venerato maestro: non quell’Arthur Miller che sposò più per coté intellettuale e passione che per amore, ma il poeta americano Carl Sandburg. «Il bardo del Midwest », come era definito, il poeta americano più importante dopo Walt Whitman secondo tutti i critici e studiosi statunitensi, due volte Premio Pulitzer, in Italia ad oggi non ha mai avuto il seguito di lettori che merita. L’editoria sembrava averlo completamente dimenticato: una breve apparizione di alcune sue poesie nel 1961 per le Edizioni Avanti! e poi il nulla. A pubblicare l’intero corpus poetico di Chigago Poems è Sedizioni (con la curatela e traduzione di Franco Lonati e la premessa di Francesco Rognoni, pagg. 376, euro 29,99).

Pur lontano da ogni accademismo, il volume mantiene un alto rigore filologico e ci fa comprendere l’importanza di Sandburg: trascurato negli anni ’60 in Italia perché raccontava già le macerie morali di metropoli americane, come Chicago, dove regnavano miseria, squallore, volgarità, ignoranza e prevaricazioni di tanti operai sfruttati. Sandburg non esprime mai un giudizio morale, illustra soltanto i fatti: ed è forse questo il vero motivo del suo essere epurato in un’Italia che in quegli anni viveva il sogno in technicolor alla Doris Day. Già la scrittrice Rebecca West, che curò un’antologia di sue poesie per Inghilterra e America scriveva: «Il suo è un talento non troppo consono a quest’epoca». Eppure, malgrado la sua anarchia anche esistenziale - definito «il poeta laureato dell’America industriale», in realtà non terminò nemmeno il college e dopo una vita da hobo, da «vagabondo», nato da una umile famiglia di origini svedesi in uno sperduto paesino dell’Illinois che abbandonò appena tredicenne per fare poi il manovale, il bracciante, il garzone di barbiere, il macchinista di palcoscenico, il commesso e il giornalista - i suoi versi incantarono subito per un impatto sociale che gli valse l’accostamento a Walt Whitman per la sua fede, comunque incrollabile, per il sogno della democrazia.

Le 133 poesie di Chicago Poems raccontano di operai, braccianti, prostitute, immigrati: un «popolo dell’abisso» che in quegli anni strideva con la contemporanea uscita della più celebre Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, raccolta anticapitalista alla fine per borghesi. Sandburg era troppo avanti coi tempi: già nel 1922 scriveva che «in termini culturali, si può sostenere che Hollywood – che piaccia o no - è più importante di Harvard, Yale e Princeton messe assieme». Una dichiarazione lungimirante, ma invisa agli strateghi democratici americani: non un «urlo» contro le «bombe all’idrogeno» alla Ginsberg, non «guerre civili» alla Masters, ma un nuovo genere di arma, lo spettacolo. Eppure proprio Masters firmò la copertina alla prima edizione del 1916 dei Chicago Poems, sottolineando che «Sandburg contempla calmo la grande oscurità, la miseria estrema, la disperata agonia, ma con la compostezza dell’artista». Perché i versi di Sandburg sono i «fiori del male» dell’America più profonda tra impressionismo e jazz. Il tutto con la compostezza che si percepisce anche nelle foto inedite con Marilyn Monroe, sei mesi prima della morte, quasi incantata dal poeta mentre imbraccia una chitarra.

Perché Sandburg è stato anche un cantastorie e ha ispirato Bob Dylan, che nel 1964 si presentò a sorpresa, dopo aver attraversato mezza America, nel suo ranch in North Carolina. Quell’anno Dylan incise It Ain’t Me, Babe i cui primi versi sono molto molto simili all’American Songbag di Sandburg.

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