I migliori critici letterari? Ormai sono gli scienziati

I migliori critici letterari? Ormai sono gli scienziati

Nel 1959, in un libro intitolato Le due culture il fisico e romanziere Charles Percy Snow poneva una questione interessante sul rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica. In un passaggio emblematico Snow scriveva: «Molte volte mi sono trovato presente a riunioni di persone reputate di elevata cultura, secondo i criteri della cultura tradizionale, che si sono precipitate a dichiarare di non poter credere che gli scienziati fossero così privi di cultura letteraria. Un paio di volte mi sono irritato e ho chiesto alla compagnia quanti di loro se la sentivano di spiegare che cos’è la seconda legge della termodinamica. La risposta era fredda, e era altresì negativa. Eppure chiedevo qualcosa che è pressappoco l’equivalente scientifico di “Avete mai letto un’opera di Shakespeare?”». È sconfortante rifletterci oggi, mezzo secolo dopo, almeno in Italia, dove i critici non producono studi rilevanti su niente ma solo articoletti sociologici o libri necrofili sul ruolo della critica stessa. Non un saggio importante su Shakespeare, su Proust, su Joyce, su Kafka, neppure su Guido Morselli, su Stefano D’arrigo, su Antonio Moresco, su Aldo Busi, su qualsiasi scrittore italiano vivente o defunto. Al massimo Carla Benedetti annuncia e riannuncia da decenni un libro su Carlo Emilio Gadda come se fosse uno sforzo immane, e speriamo che il topolino alla fine partorisca una montagna e non il solito sassolino. Altri si limitano a citarsi addosso l’un l’altro, Filippo La Porta cita Raffaele Manica che cita Alfonso Berardinelli che cita Massimo Onofri che en passant riapre e richiude La Porta, secondo il quale per fare critica non bisogna più produrre saggi, basta un tweet.
Se ai critici basta un tweet, paradossalmente gli scienziati non trascurano lo studio dei romanzi. Nell’ultimo poderoso saggio del fisico Sean Carroll, Dall’eternità a qui, appena pubblicato nella Biblioteca Scientifica Adelphi, oltre a imparare cosa sono lo spazio e il tempo come nessun critico italiano potrà mai spiegarvi, troverete citati più romanzi che in un qualsiasi libro di critico italiano. Eppure dovrebbero essere i letterati a studiare la scienza come una volta studiavano la filosofia, visto che ci tengono tanto a essere realisti, perché che realismo può avere chi ignora di cosa è fatta la realtà? Invece è il contrario: per spiegare l’entropia Carroll cita Alice nel Paese delle meraviglie dell’altro Carroll, o Entropia di Thomas Pynchon. Nel ragionare sulle dimensioni dello spazio prende come spunto da Flatlandia di Edwin Abbott. Nel parlare del tempo ovviamente non può non fare riferimento ad Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, ma non sottovaluta La Pausa di Nicholson Baker o La freccia del tempo di Martin Amis o Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Ho perfino scoperto molti poeti intelligenti, da me solitamente ignorati, grazie ai bellissimi libri di Richard Dawkins sull’indifferenza della natura, come Alfred Edward Housman («Poiché la natura, una natura senza cervello e senza cuore/ Nulla mai saprà e di nulla si curerà»), o romanzi insospettabilmente illuminanti dal punto di vista dei meccanismi dell’evoluzione, come Galapagos di Kurt Vonnegut o The Tommyknockers di Stephen King suggeriti da Stephen Jay Gould.
I romanzi non contano niente solo per i critici italiani, che anziché studiarli pubblicano pamphlet intitolati Meno letteratura, per favore!, come Filippo La Porta, o Non incoraggiate il romanzo, come Alfonso Berardinelli. Il quale dichiara serenamente che quando deve recensire un libro sceglie «quasi sempre un libro di saggistica», preferibilmente di un amico.

E non è che, per tornare all’aneddoto di Charles Percy Snow, nel frattempo questi esponenti della cultura umanistica abbiano imparato la seconda legge della termodinamica, magari. Nel frattempo hanno dimenticato anche Shakespeare.

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