La mia conclusione è che l’umanità ha perso la bussola, e con essa ogni senso della misura. Siamo circondati da pigmei, seppure in smoking, con l’iPhone fibrillante. Piccini dentro, microscopici di spirito. Poi ci sono i (presunti) giganti. Sono alti quanto le pile di dollari o di euro che intascano. C’è chi ne miete decine di migliaia al giorno per distribuire sogni di vittoria negli stadi, impalpabili come nebbia. Chi ne vendemmia altrettanti al minuto per rimestare il nulla dal tubo catodico, solido quanto l’etere. C’è chi manovra capitali virtuali (non virtuosi) sul web. Moralista? Qualunquista? Io mi sento realista. Ho fatto viaggi su viaggi. Mi considero una persona concreta.
Pullilit. C’era qualcosa di bambinesco, di umoristico, in quel nome. Specialmente per il fatto che l’arco d’ingresso all’aeroporto del paese, su cui era scritto a lettere (diciamo così) cubitali, mi arrivava alle ginocchia. Gli aerei in transito (era un’ora di punta) e quelli parcheggiati sulle piste mi parvero gioielli di modellismo. Gli autobus del terminal erano lunghi quanto i miei desert boot. Pensai che le code ai check-in e alle casse dei numerosi bar fossero composte da robottini con dei chip sofisticati. Dovevo essere inciampato in una specie di Disneyland in sedicesimo.
State già pensando: «è pazzo, è un visionario». O anche peggio: «un satirista, un Beppe Grillo». Invece sono uno scienziato. Antropologo. La Royal Society di Londra mi paga per girare il mondo e completare la mappa dei sogni e dei simboli degli uomini. Dal tempo di Francis Bacon i membri della mia organizzazione discutono della natura umana, e ambirebbero a tirare le somme. Io sono una rotellina nell’ingranaggio del calcolo. Ma temo di avere inceppato il meccanismo... Scrivo questo memoriale (chi vuole intendere, intenda...) per dimostrare che sono più che lucido di mente. Dunque, torniamo a Pullilit.
Ero in missione a Uluru, Australia del Nord, un immenso monolite ocra sul bush. Tutti lo conoscono come Ayers Rock. È un diario degli incubi e delle illusioni degli aborigeni graffitari, che per millenni ne hanno dipinto i fianchi rocciosi. Il mio compito era farne un catalogo digitalizzato, segno per segno, per poi comporre un sillabario di decifrazione. Scoprii una «pista dei canti» che puntava da qualche parte, a sud, verso il cuore dello scudo australiano. Al terzo giorno di marcia, nel deserto, smarrii ogni contatto con il mondo civile. E mi imbattei in Pullilit.
Non erano giocattoli, quelli. Non erano miniature radiopilotate. Era tutto reale! Solo la prospettiva era fantastica. Era come guardare il mondo con un binocolo alla rovescia. La scala era di 1:12, la proporzione tra il pollice e il piede. L’ombra minacciosa che proiettavo su quel minuscolo ma organizzato universo, mise in moto l’apparato di difesa. Una ronzante colonna di autoblindo e uno sciame di caccia a reazione mi accerchiarono. Sentii delle trafitture: dovevano essere proiettili soporiferi, perché mi accasciai, e caddi in un sonno di piombo.
Quando riaprii gli occhi, ero disteso nella piazza d’armi di quella che mi sembrò una caserma. Il sole implacabile mi scottava la faccia. Tentai di alzarmi, ma capii che catenelle infrangibili mi inchiodavano ai picchetti. Abbassai lo sguardo e, proprio lì, sul mio petto, vidi un generale in tuta mimetica da combattimento. Impugnava un megafono: le mostrine e le medaglie gli scintillavano addosso. Granelli di sabbia, portati dal vento, mi stuzzicarono le narici: non riuscii a trattenere uno sternuto. Per l’omino abbarbicato alla mia camicia fu come affrontare un uragano. Ma si aggrappò al bottone del mio taschino e resistette. Cannoni semoventi, mitragliere, rampe di missili terra-aria avanzarono sferragliando di una decina di centimetri.
Cominciarono i colloqui. Ho sempre avuto il pallino delle lingue. Il pulliliziano era un idioma con ascendenze ugro-finniche. Riconobbi parole imparentate con il sanscrito e il greco antico. In poche ore, fui in grado di scambiare messaggi coerenti. No, non ero l’avanguardia di una mostruosa invasione aliena. Mi ero perso nel deserto. Loro mi avrebbero portato al cospetto delle autorità.
Ci vollero quaranta gru per issarmi su una ventina di cingolati diesel. Seppi più tardi che il loro piano iniziale era di terminarmi con una scarica di siluri nucleari, ma l’impatto ambientale della mia immensa carcassa sarebbe stato catastrofico. Il preventivo del mio smaltimento era incalcolabile. Cominciò così la mia avventura a Pullilit.
Fecero di tutto per rendermi il soggiorno confortevole. A parte le misure, Pullilit sembrava un paese «normale». Il sistema politico era una monarchia. Un giorno feci accomodare il sovrano sul palmo della mia destra, e me lo sollevai all’altezza degli occhi. Dimostrò una dignità davvero regale. Indossava un completo che sembrava tagliato da Armani, e stringeva in una mano un minuscolo scettro d’oro: con l’altra, reggeva quello che giudicai un cellulare. Mi informò, con aria preoccupata, che il suo paese era dilaniato dalle controversie. Attualmente, la questione cruciale riguardava la lunghezza dei tacchetti in dotazione agli atleti della loro Nazionale di calcio. Un partito spingeva per tacchetti lunghi, gli avversari caldeggiavano i corti. C’era anche un partito trasversale «tacchetti medi», ma contava come il due di picche: anche se, fluttuando, poteva far pesare da una delle due parti il bilancino della maggioranza. Si era sull’orlo della guerra civile.
Non parliamo della destra e della sinistra. Una spina nel fianco dell’unità civica. Allo struscio pomeridiano, nella via elegante della capitale, da che parte doveva stare la dama? A dritta o a mancina? Mah... Il parlamento era riunito da mesi, ma non c’era convergenza parallela, l’opposizione strepitava, faceva ostruzionismo, insomma si profilava il pericolo di elezioni anticipate sullo scottante problema, con tutte le sue implicazioni sociali. I talk show televisivi non si occupavano d’altro. In più, una città vicina cospirava. Voleva ripristinare lo stile melodico nelle canzoni. Ma a Pullilit andavano per la maggiore i complessi rock. I satelliti spia dell’intelligence avevano scoperto movimenti di truppe e, all’infrarosso, un calore preoccupante nelle caldaie dei sommergibili e delle portaerei nemiche. Forse si era alla vigilia di un attacco. Terroristi avevano piazzato altoparlanti che diffondevano gorgheggi e note struggenti di pezzi tradizionali fin sotto le finestre della reggia. Pullilit era pronta a rispondere con la forza a ogni provocazione. Riuscii a svignarmela in una notte di luna nuova. Avevo rubato e nascosto in una caverna dei dintorni un bel po’ di motrici di Tir pulliliziani, e mi ero così costruito dei rudimentali pattini a turbina, che mi riportarono alla civiltà.
L’anno seguente ero in Mongolia, nel Gobi. Studiavo le culture dell’epoca di Gengis Khan. Ma il mio monomotore, un giorno, cominciò a sputacchiare, a perdere colpi, e fui costretto a un atterraggio di fortuna nel nulla. Secondo i miei calcoli ero a qualche centinaio di chilometri da Ulan Bator. La steppa era ondulata. Alture orlate di fitte boscaglie chiudevano l’orizzonte. Mi diressi laggiù, sperando di trovare segni di vita civile. Ne trovai uno, su un sentiero di terra battuta largo come un campo d’atterraggio per i Jumbo Jet. Era una chiave d’ottone. Nulla di strano, tranne la testa, grande quanto una macina da mulino, e la dentatura, lunga come una scimitarra seghettata. Quando scorsi la creatura che l’aveva smarrita tornare sui suoi passi scrutando il terreno, capii di essere capitato in un altro mondo.
Era un fattore. Lo dedussi dalla tuta da lavoro che indossava, e dalla falce che portava sulla spalla. La lama dell’attrezzo era lunga come l’ala di un aeroplano, e il sole calante ne traeva riflessi sanguigni. I suoi stivaloni di gomma lasciavano sulla polvere della steppa orme da far invidia a un T-Rex. Il binocolo della mia esperienza si era rovesciato specularmente. La scala si era invertita. Il mio nuovo padrone giganteggiava 12 a 1, e quando mi raccolse per guardarmi, incuriosito, mi trovai all’altezza del quinto piano di un palazzo.
Dico «padrone», e non a caso. L’uomo mi infilò, insieme alla chiave ritrovata, nella tasca della tuta, vasta come una tenda da dieci persone, e una volta a casa mi depose sul tavolo della cucina, dalle dimensioni di un campo da tennis. Gli altri della famiglia si raccolsero intorno, studiandomi. Ero diventato proprietà di un abitante di Gangdirobbn, un reame che nessun geografo aveva mai registrato su una carta, in quelle immensità sperdute dell’Asia. Hic sunt leones! Quando ne appurai il nome (in poco tempo appresi la lingua di quelle labbra tonanti) pensai di essere finito fra qualche tribù anomala di predoni, discendenti dai razziatori mongoli di Gengis Khan, cresciuti all’inverosimile per qualche misteriosa mutazione genetica. Ma non era così. Il paese era tranquillo, quasi monotono. C’era una milizia statale, una polizia divisa in squadroni, ma più per figura, che per altro: guerre e rivolgimenti sociali sfumavano nei ricordi mitici di quegli esseri giganteschi, resistendo solo nei racconti che le balie facevano ai bambini, per addormentarli.
C’era un reggente. Ma la politica, qui, contava poco. La gente comune non si appassionava ai giochi di potere. Pochi titani pensavano a tutto. Stabilivano i prezzi delle merci. Decidevano chi dovesse godere d’istruzione e chi, invece, restare ingenuo. Giornali e rotocalchi erano colossali, come gli schermi tv. In prima pagina, giganti di carta davano l’idea che Gangdirobbn fosse un colossale paese dei balocchi, velinone con attributi extrascala, giganteschi pedatori commerciati a cifre pari ai Pil di stati di media forza, megastar dello schermo, venerate come idoli scolpiti nelle montagne.
Un giorno, pensando di darmi importanza, di impressionare quella gente, sciorinai al re tutto il potenziale militare che si annida nei nostri arsenali: scudi stellari, bombe biologiche, testate con i loro megatoni, arnesi di morte che, secondo la nostra filosofia, tengono a galla il mondo con l’equilibrio del terrore. «Siete proprio pidocchi litigiosi» fu la sua risposta. Avevo intenzione di aumentare un po’ la mia statura raccontando le ardue conquiste dei nostri intellettuali, filosofi, guru, semiologi, analisti, specialisti del bla bla, cuochi sopraffini dell’aria fritta, ma mi resi conto che non era il caso...
Vivevo in una scatola da scarpe, attrezzata a camper: devo ammetterlo, con ogni comodità. Ma una sera, un’aquila reale afferrò la mia dimora fra gli artigli e mi trasportò a volo sull’oceano. Quando precipitai in acqua, provai l’esperienza degli astronauti, al rientro nell’atmosfera con le loro capsule. Mi raccolse una motovedetta, di pattuglia anticlandestini. Qualche mese in pantofole, a scaldar sedie dietro le scrivanie, poi via di nuovo. Non sono tipo per la vita immobile.
Accettai l’invito di un magnate eccentrico, che aveva trasferito la sede direttiva del suo impero - petrolio, acciaio, grano e acqua potabile, l’«oro blu» dei nostri tempi - su uno Shuttle in orbita perenne intorno al mondo. La Royal Society diede il benestare: a me il compito di studiare l’antropologia degli umani nello spazio. Con il primo traghetto stellare, mi trasferii su Putala: così si chiamava lo straordinario veicolo. L’«Imperatore», come si faceva chiamare, era un mistico. Aveva stivato montagne d’oro nelle banche svizzere e in tutti i paradisi fiscali del pianeta. Approdato al buddhismo, era devoto fervente delle saggezze orientali. Sprofondava in meditazioni così esclusive che un suo funzionario, sempre in servizio, doveva richiamarlo all’attenzione facendogli squillare un cercapersone appeso al collo, come un pendaglio, a intervalli stabiliti di tempo. Forse cercava un riscatto inconscio alla sua trascorsa sete di potenza e di averi. La sua culla d’acciaio sospesa nel cosmo gli garantiva il distacco non solo dall’umanità, ma anche dalla realtà. Finanziava matematici, luminari di geometrie estreme, informatici persi in ricerche di programmi globali, filosofi accaniti nell’indagine delle cause prime e delle cause ultime. Ma il suo vanto era l’accademia delle scienze.
Feci la conoscenza con gli inquilini di quel bislacco consesso. Erano tutti inventori di qualcosa. C’era chi s’ingegnava a estrarre energia dal vento e dal sole, con strane eliche rotanti e pannelli luccicanti. Un esperto in comunicazioni lavorava a un progetto di lingua-terra, un codice universale basato su complessi sistemi algebrici: martelletti idraulici, mossi dalla sorte, azionavano la tastiera di un enorme computer, creando alfabeti e testi sottoposti per metà alla tirannia del caso, per l’altra metà alla padronanza di regole misteriose. L’intento era dar vita alla biblioteca definitiva che, stivata su un supporto di incommensurabile memoria, sarebbe stata sparata nelle profondità galattiche, a documento immortale dell’intelligenza umana. Una rockstar, pasionaria d’alchimia, cercava di mutare in bianco ciò ch’era nero. Uno scienziato filantropo era lì lì per ricavare propellente dall’aria e dall’acqua. «Vostra Grazia» chiesi ingenuamente una volta al mio ospite «Voi, proprietario dei più grandi depositi di petrolio al mondo, non vi state forse tirando la zappa sui piedi? A chi venderete l’oro nero, quando i motori gireranno con l’acqua fresca delle sorgenti?». Ma lui era immerso in riflessioni così insondabili che neanche lo squillo d’ordinanza riuscì a ridestarlo...
M’impressionò l’invenzione di un archeologo, un aspiratore capace di risucchiare le anime grandi del passato. In mia presenza, si materializzò Socrate, il castigamatti ateniese. Fu organizzata subito una teleconferenza con le persone ritenute - soprattutto da loro stesse - le più intelligenti, le più capaci, le più preparate al mondo. Quasi tutti accettarono la sfida: forse perché erano sicuri di aumentare l’audience, di guadagnare popolarità, la loro moneta corrente. Vidi capi di Stato, presidenti, potenti, finanzieri, guerrieri, stelle del cinema, anchorman planetari, insomma la crema del mondo, finire arrosto sulla graticola di Socrate. Quel greco calvo e corpulento, con gli occhi bovini che sprizzavano scintille, dialogava con tutti, a forza di domande pungenti come colpi di fioretto. Tutti credevano di sapere tutto. E imparavano, poi, che l’unico, vero sapiente è colui che sa una cosa sola: di non sapere. Perché la sapienza è mancanza, ricerca, dialettica. Se si maschera di certezze, è vanagloria, ignoranza, cattiveria...
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«Allora, Jonathan, che ne pensi di questo memoriale?» domandò al collega il primario del Maudsley Hospital, rinomato centro psichiatrico londinese. «Non ho dubbi, Steve», rispose l’uomo in camice bianco, «somatoagnosia, allucinazioni cinestesiche, complicate dalla sindrome di Babinski. Il soggetto non ha la percezione corretta del proprio corpo. Deve aver subito qualche lesione nelle aree temporo-occipitali. Questo spiegherebbe la macro-micropsia, quel suo “vedere” giganti o nanerottoli. Poi, tutte quelle idee banali sulla politica, sull’arte, sulla scienza, sulla civiltà... Schizofrenia ossessiva, direi». Il primario sospirò. «Terapia?». «Potenziamento dei sedativi» rispose il suo aiuto «e isolamento di rigore. Non deve parlare con nessuno, per un po’. Raccomanderei silenzio stampa assoluto. Quell’uomo ne ha fatti di viaggi.
«A proposito. Qual è il suo nome?» domandò il dottor Steve, versandosi il tè fumante nella tazza. «Gulliver, mi pare» rispose l’altro luminare, porgendo la zuccheriera.
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