L'«altra» Hollywood (quella vera, non delle star) vista dalla sorella di Jobs

A un certo punto, sulla West Coast, due investigatori privati cercavano, separatamente, lo stesso professore siriano di Scienze Politiche. Non lo trovarono. Ma nel 1985 i detective, pestandosi i piedi, misero una certezza nelle menti di chi li pagava, l'uno a insaputa dell'altra. Doveva trattarsi dell'identico genitore, alias l'immigrato John Abdul Fattah Jandali, che aveva piantato in asso due bambini, ormai adulti e desiderosi di ritrovare quel padre, anche via piedipiatti. Fu così che Mona Jandali Simpson, scrittrice del Wisconsin, e Steve Jobs, fondatore di Apple e idolo del web, scoprirono d'essere fratelli. Lui, nato due anni e mezzo prima di lei, nel 1955 fu adottato da Paul e Claire Jobs, gente modesta, che gli permise d'assecondare il suo genio. Lei, cresciuta con la loro madre Joanne Schieble, che detesta, s'è fatta un nome trasformando la sua dolorosa esperienza in libri di successo, basati su famiglie patologiche.
Nel discorso all'Università di Stanford, nel 2005, Jobs rivelò che la madre biologica aveva firmato le pratiche per la sua adozione «con riluttanza». In qualche modo, la giustificava. Invece Mona, autrice di cinque romanzi insigniti di vari premi, ricorda con rabbia. Come The Lost Father, che in chiave biografica narra la ricerca del «padre perduto», o A Regular Guy, dove racconta del fratello Steve e della sua relazione con la di lui figlia naturale Lisa Brennan: Jobs ne negò la paternità, affermando d'essere sterile e poi fu smentito dal test del DNA. Materia cruda, servita con feroce minimalismo che piace a critica e pubblico. Ora esce da noi La mia Hollywood (Nutrimenti, pagg. 496, euro 22), con i ringraziamenti finali a «mio fratello Steve, che mi ha insegnato moltissimo di quello che so sull'amore e la famiglia». Un romanzo globalizzato dove la famiglia, la casa e le aspettative dei genitori che vogliono figli perfetti, formano una matassa da districare a Hollywood. Non nel solito posto di stelline scosciate sotto le palme di Sunset Boulevard, bensì nella Los Angeles di frettolose madri in carriera, pronte a soffiarsi tate filippine, «che sono status-symbol, come la BMW».
Scafata da anni di giornalismo letterario, la Simpson toglie di mezzo le bellurie e va dritta al ping-pong emotivo tra Claire - madre ansiosa e musicista sposata con lo sceneggiatore tv Paul- e la sua tata filippina Lola, «una Mary Poppins con tanto di ombrello». Tagliato sulla satira di The Nanny Diaries, con la caricatura delle madri di Manhattan, schiave di tate indispensabili, il romanzo scolpisce con padronanza di dettagli psicologici yuppies narcisisti «che vivono in case a due piani» e nevrotici dirigenti di studio. Se Claire è un'artista che si sbatte «sotto le insegne dipinte di Guerre stellari, tra uomini che spingono telecamere Panavision», intanto che il marito è «il padre assente, che pensa alla sua puntata-pilota», è Lola a emergere come protagonista.

Emigrata negli Usa per «mandare soldi a casa», insegna a Claire la bellezza dei piaceri semplici: una buona tazza di caffè, quattro chiacchiere sul bambino. Non c'è lotta di classe tra le due, legate dall'american dream: farcela nella Hollywood-Babilonia delle famiglie balorde.

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