l'intervista inedita

Lei ha detto che Sartre ed altri, impiegando una modalità di discorso tedesca, hanno in qualche modo danneggiato il linguaggio filosofico. Può approfondire questo concetto?
«Bene, per prima cosa le dirò che quando ero abbastanza giovane, io stesso sono stato influenzato da questo gergo tedesco. Pensavo che la filosofia non dovesse essere accessibile agli altri, che fosse un circolo chiuso e che a tutti i costi si dovesse impiegare questa terminologia erudita, laboriosa e complicata. È stato solo a poco a poco che ho capito l'aspetto ingannevole del linguaggio filosofico. E devo dire che lo scrittore che mi ha enormemente aiutato in questa scoperta è Valéry. Perché Valéry, che non era un filosofo, ma che ha avuto ugualmente un'influenza sulla filosofia, scriveva con un linguaggio molto essenziale e aveva orrore del linguaggio filosofico. Quel gergo ti dà un senso di superiorità su tutti. E l'orgoglio filosofico è il peggiore che esista, è molto contagioso. In ogni caso, l'influenza tedesca in Francia è stata, a livello complessivo, disastrosa. I francesi non riescono più a dire le cose in maniera semplice».
Ma quali sono le cause?
«Non lo so. Ovviamente Sartre, con l'enorme influenza che ha avuto, ha contribuito a generare questa moda. E poi c'è stata l'influenza di Heidegger, molto forte in Francia. Ad esempio, quando parla della morte, Heidegger utilizza un linguaggio così complicato per dire cose molto semplici, che comprendo bene di come si possa essere tentati dal suo stile. Ma il pericolo dello stile filosofico è quello di perdere completamente il contatto con la realtà. Il linguaggio filosofico conduce alla megalomania. Ci si crea un mondo artificiale dove si è Dio. Quando ero giovane, ero orgoglioso e compiaciuto di conoscere questo gergo. Ma il mio soggiorno in Francia mi ha completamente guarito da questo male. Non sono un filosofo di professione, anzi non sono affatto un filosofo, ma il mio percorso è stato inverso rispetto a quello di Sartre. Ecco perché mi sono rivolto agli scrittori francesi conosciuti come moralisti, La Rochefoucauld o Chamfort, i quali scrivevano per le donne dell'alta società e il cui stile era semplice, ma che esprimevano cose molto profonde».
La filosofia è stata il suo primo interesse?
«Ho studiato filosofia quasi esclusivamente dai diciassette ai ventuno anni, e solo i grandi sistemi filosofici. Ho trascurato la maggior parte della poesia e il resto della letteratura. Ma fortunatamente ho rotto ben presto con l'università, che considero una grande sventura intellettuale e persino un pericolo».
Leggeva Nietzsche allora?
«Quando studiavo filosofia non leggevo Nietzsche. Leggevo i filosofi seri. (Ride). È stato quando ho smesso di studiarla, nel momento in cui ho smesso di credere nella filosofia che ho cominciato a leggere Nietzsche. Beh, mi resi conto che non era un filosofo, ma qualcosa di più: un temperamento. Così, l'ho letto, ma mai in maniera sistematica, ogni tanto. In realtà non lo leggo più ora. Considero le lettere la sua opera più autentica, perché in esse è sincero, mentre nel resto delle sue opere è prigioniero della sua visione. Nelle lettere ci si accorge che è solo un poveraccio, che è malato, esattamente l'opposto di tutto ciò che ha affermato».
Ha mai scritto durante tutte quelle notti insonni?
«Sì, ma non così tanto. Sa, ho scritto molto poco, non l'ho mai considerata una professione. Non sono uno scrittore. Scrivo questi piccoli libri, che non sono nulla di che, non è un'opera. Nella mia vita non ho fatto niente. Ho esercitato una professione solo per un anno, quando sono stato professore in un liceo in Romania. Ma da allora non ho mai più lavorato ed ho vissuto quasi da studente. Considero questo il mio più grande successo. La mia vita non è stata un fallimento, perché sono riuscito a non fare niente».
È difficile.
«È estremamente difficile, ma lo considero un immenso successo. Ne sono orgoglioso. Ho sempre trovato un modo o un altro. Avevo borse di studio, cose del genere».
Quando Sillogismi dell'amarezza è uscito in edizione economica certamente ha riscosso un gran successo.
«In più di vent'anni aveva venduto solo duemila copie. La mia fortuna è stata quella di riuscire a passare quasi trent'anni in una sorta di oblio. Secondo me, il dramma per uno scrittore è diventare famoso da giovane, una cosa estremamente negativa, poiché molti scrittori, se diventano conosciuti quando sono abbastanza giovani, cominciano a scrivere per il loro pubblico. A mio avviso, un libro andrebbe scritto senza pensare agli altri. Non si dovrebbe scrivere per nessuno, solo per se stessi. E non si dovrebbe mai scrivere un libro solo per scrivere un libro.

Perché è una cosa completamente irreale, è solo un libro. Tutto ciò che ho scritto, l'ho scritto per sfuggire a un senso di oppressione o di soffocamento. Non è stato per ispirazione, come si dice. Era come liberarsi da qualcosa, come riuscire a respirare».

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