Makos: "Così immortalai Warhol e la Factory"

Nelle immagini di Makos si riflette la scena artistica newyorchese. Colta senza filtri

Makos: "Così immortalai Warhol e la Factory"

Christopher Makos arriva alla Galleria Carla Sozzani indossando un completo a righe e scarpe da tennis fosforescenti. Stringe mani, si agita come un folletto, ma sempre con una parola gentile per tutti. Un solo divieto: «Non mi chiediate più come ho incontrato Andy Warhol. Non è meglio se guardiamo le foto?». Infatti è a Milano per inaugurare, oggi, a 10 Corso Como, la sua mostra Altered Images. Scatti che ritraggono quello che è stato l'epicentro creativo della New York anni '70 e '80: proprio a partire dalla Factory di Warhol. E allora mentre corre da un'immagine all'altra, questo greco-italiano - nato a Lowell Massachussets, cresciuto in California e adottato da New York - racconta, pescando da un serbatoio di ricordi grande come l'arte contemporanea. «Queste sono le foto che io e Warhol abbiamo pensato come riflessione sull'identità, guardando indietro a Marcel Duchamp e a Man Ray». Scatti in cui Warhol indossa parrucche femminili, orecchini, drappi bianchi. A volte ha il viso imbiancato «come fosse una maschera, un quadro vivente». Poi c'è una foto «normale». Makos ti ci mette davanti e dice: «Guardalo bene negli occhi... Fatto? Ecco anche se tu fossi stato alla Factory difficilmente saresti riuscito a guardare Andy così. Non guardava mai fisso negli occhi nessuno». Ma non c'è solo Warhol, ci sono tutti gli scatti più belli di White Trash il libro del '77 in cui Makos ha mischiato la scena punk newyorkese del CBGB'S con quella che allora era la cultura alta della città: Basquiat che tiene un mappamondo e un punkettone con l'orecchino a lametta, Keith Haring che fissa l'obbiettivo, una ragazza con la cresta. E Makos mentre «boicotta» ogni tentativo di quiete di chi lavora all'allestimento: «Haring timido? Ma no per me è stato facile fotografarlo, era un amico io ho fatto solo foto ad amici. Basquiat? Lo presentai io a Warhol, come Haring. Non gli piaceva essere considerato un artista africano». Ma possibile mai un personaggio che l'abbia intimidito? Si fa pensoso:«Liz Taylor, lei sì. Quando l'ho fotografata aveva un vestito rosa, i fiori nei capelli e quegli occhi viola. All'inizio ero paralizzato. Ma alla fine era docilissima, una bambina». Alla fine il fotografo mette il freno a mano: «Rispetto il passato, ma adoro il presente e sono proiettato verso il futuro, ora lavoro a un progetto bellissimo The Hilton Brothers e collaboro con il brand Ports 1961, scrivete anche quello?».
E poi visto che non si può sfuggire lo dice: «Io non sono andato a New York per Warhol è stato un incontro casuale. E appena ci siamo visti il legame è stato inevitabile. Le stesse scuole cattoliche, repressive, lo stesso percorso.

Scrivevamo addirittura allo stesso modo». A quel punto «ruba» un quadernetto. Fa due firme una Andy Warhol una Christopher Makos. Una finta che sembra vera, una vera che sembra vera. La Factory è tutta in questo giochetto.

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