"Il mio libro d'amore è stato un sacrilegio"

In Guarigione l'autore napoletano racconta con durezza il mestiere di genitore e la lotta contro dolore e morte. "È la mia storia, scritta per creare un legame forte col lettore. Ma senza morbosità"

"Il mio libro d'amore è stato un sacrilegio"

Paternità, malattia, dolore, amore: sono i temi di quello che potremmo chiamare il nuovo romanzo di Cristiano De Majo Guarigione (Ponte alle Grazie, pagg. 252, euro 16,50). Potremmo. Ma Guarigione non è un romanzo. E non ha temi, ma una parabola esistenziale. Dentro ci sono i primi anni di vita di due gemelli e la visione che ne dà un padre quando scopre che portano il marchio di una malattia genetica da cui forse si può guarire e forse no; c'è la storia di una coppia ma anche delle vite di altri che la attraversano; c'è un fulcro che sembra quello della malattia, di una serie di ricadute nella tragedia, ma che la filosofia di un autore come questo napoletano classe 1975 - che non ha pudore nel raccontare l'inguaribile inadeguatezza dell'essere umani e padri imperfetti - trasforma in un processo di guarigione. Ci si ammala per guarire, si guarisce per comprendere che se ci si ammala nuovamente sarà per affrontare una guarigione diversa.

Nel racconto di una serie di tragedie realmente accadute alla famiglia De Majo e ad altri malati, si mescolano stili imprevedibili di narrazione, fino a creare un quadro inedito, non completamente autobiografico né completamente di finzione.

Un altro esempio di autofiction?

«Autofiction è quella che fa Walter Siti: racconta cose usando il suo nome e se stesso come personaggio, ma niente di quello che racconta è dichiaratamente aderente all'esperienza della realtà. Guarigione potrebbe essere definito “non fiction”: una storia che parte dall'esperienza dalla realtà e che però usa in qualche modo gli strumenti della letteratura per raccontarla».

Perché è importante sapere che è successo davvero?

«Perché cambia il rapporto con il testo. I testi che sento apparentati con il mio sono i libri di Emmanuel Carrère e quelli di Joan Didion, Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forest, i Diari di John Cheever».

Siamo morbosamente malati di reality e ne vogliamo sempre e ovunque?

«Qualche anno fa David Shields scrisse Reality Hunger , che parla proprio di “fame di realtà”. La nuova letteratura è influenzata da forme non letterarie come i reality. Ma quando si scrivono storie come la mia si cammina su un filo: da un lato c'è l'abisso della morbosità, del narcisismo, dell'esibizionismo. Dall'altro il bisogno di comunicare anche empaticamente con il lettore. Amo chi mi dice: “Mi riconosco nella tua storia”. Un lettore che identifica le mie esperienze come verità umane archetipiche».

Come si sta dopo aver messo a nudo vicende così intime?

«Nei giorni precedenti l'uscita del libro mi chiedevo: starò facendo la cosa giusta? Alla mia compagna l'ho fatto leggere prima, ad altri genitori ho chiesto l'autorizzazione a parlare di loro, quindi pensavo soprattutto ai miei figli. Ho esposto le loro vite alla lettura di altri: fra quindici anni, quando avranno la possibilità di capire, che cosa diranno? “Che c... hai fatto, papà?”».

Che cosa risponderà?

« Guarigione nasce anche come bisogno di riempire la lacuna del ricordo: loro erano piccolissimi, come potranno sapere che li ho amati così tanto? C'è molto amore, nel libro. Ma so di aver compiuto un'operazione sacrilega».

Negli ultimi anni i padri si raccontano sempre di più. E vendono.

«Forse perché stiamo più a casa di prima, forse perché chi scrive sta a casa ancora di più, perché non ha un posto fisso. E gli scrittori, fiction o non fiction, raccontano ciò che gli capita. Citando Forest: il romanzo occidentale s'è disinteressato di un aspetto rilevante dell'essere umano, l'essere genitori. S'è sempre occupato dell'essere figli».

Lei come padre a volte vorrebbe mollare, poi crede che il solo averlo pensato provochi di per sé il male.

«Non ho avuto rapporti splendidi con i miei genitori. Perciò sono attento a ogni reazione che i miei figli mi provocano. Inoltre, malattia e paternità sono esperienze che sfuggono al nostro controllo di esseri umani. Con la scrittura tento di recuperare questo controllo, elevando a simbolo anche cose stupide, su cui nella vita quotidiana mai ci soffermiamo».

È un rischio dipingersi cattivi.

«I protagonisti dei romanzi più riusciti sono quelli che hanno sfumature. Sono il lupo o il cacciatore? Quelli autoindulgenti non sono buoni romanzi».

Guarire come metafora di vita. Che significa?

«Ho pensato che se Susan Sontag aveva scritto la malattia come metafora io potevo scegliere la guarigione. Rispetto al legame che ha con il tempo. Questa non è letteratura sapienziale alla Coelho, ma la dimostrazione di come dobbiamo accettare di essere dentro al tempo».

Come si racconta il tempo?

«Il primo capitolo si apre con la nascita gemellare. Il secondo torna indietro e racconta il concepimento. Il terzo ritorna a dopo la nascita con una prospettiva schiacciata sul presente: il tempo assume una consistenza meno lineare, meno logica, meno monotona. Il quarto rappresenta l'uscita dall'isolamento: i primi mesi di vita dei bambini da genitori, mettere la testa fuori. Che significato hanno le parole presente, futuro, passato prima di diventare genitori e che significato hanno dopo?».

Il tempo siamo noi: sembra il soggetto di Interstellar.

«Con la differenza che io l'ho scoperto sulla mia pelle».

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