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In nome del web sovrano. Ecco tutti gli inganni della democrazia digitale

Alcuni studiosi riflettono su come la vecchia utopia del governo popolare diretto assuma nuove forme. Che non funzionano

In nome del web sovrano. Ecco tutti gli inganni della democrazia digitale

La democrazia rappresentativa è quel sistema politico liberale in cui i delegati, nominati attraverso libere elezioni, sono autorizzati a trasformare la volontà popolare in atti legislativi. Secondo il primo autorevole teorico liberale del governo rappresentativo, John Locke, tale delega va subordinata a una fondamentale condizione: il popolo rinuncia alla sua immediata sovranità, a patto che vengano garantiti a tutti alcuni diritti e una quota significativa di libertà individuale. Insomma: non si può pensare una democrazia rappresentativa priva di garanzie costituzionali che in certa misura trascendono la stessa volontà popolare.

A parte quelle di segno assolutista e reazionario, le critiche più ricorrenti a questo sistema politico sono venute dagli assertori della democrazia diretta. Essi sostengono che il governo deve essere un esecutore della volontà popolare, nel senso che il popolo deve governare senza mediazioni di sorta. Per Rousseau, capostipite di questa corrente, la democrazia è la realizzazione dell'assoluta identità dei governanti e dei governati, poiché l'unico detentore del potere è, per l'appunto, il popolo stesso, essere collettivo indivisibile e inalienabile. Esso è tale proprio perché è privo di qualsiasi rappresentanza in grado di trascenderlo, tranne quella - sempre revocabile - del mandato imperativo.

È a quest'ultima concezione politica che si ispirano i fautori della e-democracy o democrazia elettronica. Costoro ritengono che la “rete” può finalmente dar corso al sogno del potere uguale per tutti, attraverso una connessione permanente e orizzontale che, togliendo di mezzo tutte le mediazioni - partiti, sindacati e istituzioni di ogni genere - ponga finalmente ogni singolo individuo a contatto diretto e immediato con qualsiasi altro: il «cyberspazio» può eliminare ogni sovrano. Il web, data la sua onnipervasività, viene ritenuto un'imponente realtà interattiva, capace di aprire infinite possibilità di scambio e di comunicazione fra tutti.

Su questa inedita opportunità offerta dalla «democrazia digitale» si concentra l'attenzione dell'ultimo fascicolo della rivista trimestrale Paradoxa, che raccoglie i contributi di molti studiosi: Laura Paoletti, Franco Chiarenza, Dino Cofrancesco, Mario Morcellini, Serena Gennaro, Fulco Lanchester, Enrico Morando, Paolo Becchi e Davide Bennato. Tutti, tranne Becchi, esprimono sul tema, sia pure in misura diversa, significative critiche e riserve.
In effetti, l'idea che la democrazia elettronica possa realizzare la democrazia diretta appare una speranza mal riposta. Si tratta dell'ennesima illusione utopica, destinata, come molte altre, a infrangersi contro l'oggettiva durezza della logica politica, ovvero della logica del potere; logica, ricordiamolo, che finora solo la democrazia liberale ha saputo mitigare, essendo impossibile estirpare definitivamente il conflitto fra gli uomini. Chi può veramente pensare che un mezzo, per quanto straordinario, possa risolvere d'emblée problemi irrisolti da secoli? In realtà, la «rete» offre certamente maggiori chances democratiche, ma esse sono ben lungi dal realizzare la democrazia diretta.

Oltretutto quest'ultima, per funzionare, richiede esattamente il contrario di quanto offre la «rete» stessa, perché il suo conseguimento può avvenire solo in piccole comunità, e solamente a patto che si dia un insieme di condizioni storiche, geografiche, culturali, politiche, religiose - financo antropologiche - del tutto specifiche. Esempio banale: nessuna democrazia diretta è in grado di risolvere i problemi di convivenza fra persone di fedi politiche e religiose opposte. È ovvio che essa non riuscirà mai ad accordare un nazista con un comunista, o un islamico radicale con un cattolico integralista. Nessuna democrazia diretta potrà vedere la luce a New York, a Tokio, a Londra o a Calcutta.
Per ritornare alla «democrazia digitale», c'è da osservare che essa offre invece enormi possibilità di manipolazione delle masse ai demagoghi di ogni risma. Questi, proprio grazie al fatto che non esistono mediazioni di sorta, possono esercitare un potere di «persuasione» su molte persone prive di capacità critica e perciò ricettive alla ipersemplificazione scaturita dall'identificazione fra etica e politica: il mondo viene diviso in buoni e cattivi, secondo lo schema del riduzionismo gnostico-manicheo. Così, attraverso il mito della partecipazione democratica, che di per sé non è certo garanzia di libertà, nasce la dittatura telematica di una minoranza, come è ben dimostrato dal fenomeno autoritario e naïf del grillismo, movimento in cui non esiste alcuna forma di individualismo, dato che i suoi adepti parlano con le parole del capo e i militanti agiscono in base a ordini unidirezionali impartiti dall'alto.

Come osserva acutamente Dino Cofrancesco, la e-democracy può saldare perfettamente elitismo e populismo, in un coacervo politico difficilmente distinguibile. Siamo, cioè, all'esatto opposto della complessità liberal-democratica, che vive di continue e difficili sedimentazioni problematiche. Lo sottolinea anche Fulco Lanchester, che mette in luce come le network technologies possono favorire nuove e inquietanti forme plebiscitarie, sottratte a ogni effettivo controllo democratico.
È vero che la storia riserva sorprese di ogni tipo.

Non vorremmo, però, essere costretti a rivedere, sia pur con nuovi attori, vecchi film tragicomici (più tragici che comici, in verità), destinati inevitabilmente al fallimento.

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