Da Pisacane a Bottai. La Legione straniera era "made in Italy"

Nel suo nuovo saggio Gianni Oliva racconta la storia del temibile corpo militare. Zeppo di italiani in fuga

Da Pisacane a Bottai. La Legione straniera era "made in Italy"

C'è la storia e c'è la leggenda. Ed è difficile distinguerle quando si nascondono sotto il képi blanc della Legione straniera, a lungo una delle macchine belliche più temibili e misteriose al mondo. Sì perché va a tutto vantaggio dell'efficacia di un corpo d'élite disporre di un'arma psicologica: fare una grande paura ancora prima di scendere in campo. A dare un resoconto puntuale di cosa sia stata la Legione ci prova, con un saggio molto ben documentato, lo storico Gianni Oliva: nel suo Fra i dannati della terra (Mondadori, pagg. 258, euro 22) ricostruisce grandezze, eroismi e bassezze di tutti quelli che hanno combattuto sotto lo stendardo rosso verde con la scritta Legio patria nostra .

Il primo pregio del volume di Oliva, che è storico molto edotto di cose militari, è quello di valorizzare l'aspetto politico della Legione. Per usare le sue parole: «Le statistiche sull'arruolamento della Legione sono un compendio della storia d'Europa. Nei primi anni ci sono gli sconfitti delle rivoluzioni nazionali, gli idealisti italiani del 1830 e del 1848, gli insorti liberali di Vienna e Budapest... Nel 1920-21 c'è l'afflusso dei russi bianchi cacciati dall'Armata Rossa bolscevica; nel 1939 i repubblicani spagnoli in fuga dalla falange franchista; nel 1945 i fascisti e i nazisti con un passato scomodo... nel 1956 e nel 1968 gli ungheresi e i cecoslovacchi schiacciati dai carri armati sovietici». Insomma, una compagine tenuta assieme dall'addestramento e da uno strano senso dell'onore ma tutt'altro che ideologicamente neutrale, anzi proprio a “corrente alternata”. In fondo il fatto più incredibile è proprio che i fuggitivi non siano mai riusciti a darle una colorazione (“nera” o “rossa” che fosse). Forse perché, come spiegava il fascistissimo Giuseppe Bottai - che nella Legione trovò una seconda identità e una nuova dimensione di valore militare e onore ritrovato -: «La Legione è all'ultimo limite d'ogni esperienza umana. Chi ci capita ha già fatto intero il giro della sua vita, è già dall'altra parte del versante, e in lui la lucida conoscenza di sé s'associa all'idea della morte. Perdere la propria vita è un guaio, ma moralmente comprensibile con una morte degna».

Certo, a rendere il tutto un po' meno poetico resta la considerazione che dal 1831 a oggi, e Oliva lo spiega bene, nella Legione ha militato soprattutto chi ha fame e bisogno di un rifugio pur che sia.

Ma l'interesse nel testo è soprattutto sul versante italiano: lo storico ha dedicato molte pagine agli italiani della Legione. E sono prosopografie davvero interessanti, raccontano di personaggi noti e meno noti. Agli esordi del corpo la presenza dei nostri conterranei è davvero fondamentale. Quando Luigi Filippo decide di creare una compagine mercenaria per uscire dai suoi guai con l'Algeria e la guerra sporca in cui si è impantanato, dalla Penisola si accorre numerosi. Il centro di reclutamento di Auxerre in Borgogna è preso d'assalto. Molti sono esuli dei moti Napoletani e per loro servire la Francia “costituzionale” è un onore. Tra i primi ad arrivare c'è Raffaele Poerio ufficiale che ha sempre il generale Murat nel cuore: a quarant'anni ha visto infrangere dalle truppe della reazioni i suoi sogni di una Napoli de-borbonizzata. Ma nella Legione il vecchio soldato viene messo subito a capo del Quinto battaglione. Tutto di volontari italiani. Resterà per diciassette anni, convinto di combattere per la Francia una guerra di civiltà contro la barbarie islamica. A farlo desistere sarà la nuova ondata di moti italiani, quella del '48. Dismette il kepì e diventa un generale di brigata per il governo provvisorio di Milano. Meno fortunato Stefano Montallegri che nella legione ci muore combattendo in Spagna contro i carlisti (qualche anno prima Montallegri era stato l'eroe della battaglia de La Macta dove la legione aveva salvato le truppe regolari dall'annientamento ad opera dei cavalieri berberi). E che dire di Augusto Anfossi, uno dei martiri del Risorgimento? Se quando combatte per le vie di Milano dimostra un talento naturale per la battaglia (verrà ferito a morte mentre comanda un travolgente attacco al Palazzo del Genio) è perché si è fatto le ossa nella Legione.

E persino il più idealista e disperato dei patrioti italiani, Carlo Pisacane, aveva indossato, per fuga d'amore, la divisa del legionario. Se gli italiani non mancano mai, un altro che farà carriera è il conte bolognese Ugo Pepoli, il loro momento di maggior gloria arriva con la Prima guerra mondiale e la così detta «legione garibaldina», quando per fretta e necessità i francesi di nuovo inquadrano i legionari per nazionalità. I nipoti di Garibaldi sono in prima fila tra i legionari: due di loro muoiono nei primi scontri. I corpi riportati in Italia saranno ottime icone per le manifestazioni interventiste. Ma non mancano nemmeno il pugliese Ricciotto Canudo, che sarà poi uno dei pionieri della critica cinematografica, maghi dell'odontoiatria come Henry Lentulo o penne di valore come Curzio Malaparte.

Poi arriverà la stagione dei legionari fascisti come il già citato Bottai o la meno evidente stagione degli italiani che finirono accerchiati a Dien Bien Phu per mettere assieme il pranzo con la cena. Furono in 5mila a combattere in Indocina e più di mille finirono prigionieri dei Viet Minh. Poi pian piano la Legione ha cambiato orizzonti. Ha optato per altre manovalanze. Qualcuno ancora si presenta ai suoi cancelli, però.

Quando si è presentato Gianni Oliva per motivi di studio, un distratto legionario di guardia gli ha urlato: «Alla sbarra dieci trazioni» (il minimo per l'ammissione ai test). Solo dopo ha capito che era un professore. La Legione non guarda in faccia a nessuno.

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