Provocazione Dove porta il rigore teutonico

Germania, anno del signore 2016. Quello che era il cuore produttivo dell'Europa conta ormai otto milioni di disoccupati. Beh, otto, secondo le stime ottimistiche. Intere città sono diventate zone off-limits. Chi ha un lavoro è visto come un privilegiato, quasi fosse un feudatario medievale che è riuscito a difendere il suo feudo dall'orda barbarica della crisi. L'idea del rigore, lo stato sociale difeso con i denti e con le unghie, non è riuscita ad impedire un crollo epocale, qualcosa che non si vedeva dai tempi della Seconda guerra mondiale. Eppure il governo non si è arreso: l'agenzia federale raduna i disoccupati in apposite «scuole», dove vengono addestrati a ritrovare un lavoro. La migliore di queste scuole si chiama Sphericon, gli allievi vengono trasportati lì con appositi pullman con scritto sulla fiancata «La Germania si muove». Un corso intensivo al motto di «Work is Freedom!», il lavoro rende liberi. Un corso dove chi non si dimostra abbastanza devoto al sogno di ottenere un nuovo lavoro si vede decurtare i coins, le monete farlocche che servono a far funzionare i distributori di cibo della mensa, un corso dove gli istruttori insegnano sistematicamente a mentire per costruire dei curricula più belli perché «le qualifiche individuali non hanno più alcun peso. Il nocciolo è il colloquio di presentazione come tale... Il nocciolo è dimostrare fiuto per la candidatura... una volta il lavoro inseguiva l'uomo, ora l'uomo deve inseguire il lavoro... con ogni mezzo».
E se proprio uno oppone resistenza? Se non vuol piegarsi ad accettare qualsiasi tipo di lavoro, se fa il bamboccione, oppure il choosy (per usare un anglismo che piace ai ministri italiani)? Beh non importa, i curricula falsi glieli fa la scuola, mentre viene rinchiuso in una stanzetta a subire il lavaggio del cervello da parte dello psicologo di Stato: «Lei da anni è disoccupata, forse lo sarà per il resto della sua vita. E davvero si pone la domanda se sia o meno il caso di candidarsi per questo impiego? Lei è alla deriva, in un oceano di disoccupazione di massa e si pone una domanda del genere?».
Nessuno può sfuggire alla speranza di trovare un lavoro che non c'è. Chi non lo ottiene, battendosi alla morte in gare che scimmiottano il programma televisivo Job Quest, viene mandato comunque in vacanza: biglietto di sola andata per l'Africa, senza documenti che gli consentano di tornare indietro.
Fantascienza? Sì, di quella amarissima però, e calata a piedi pari nella realtà. A raccontarcela lo scrittore tedesco Joachim Zelter, l'autore de La scuola dei disoccupati appena tradotto in italiano per i tipi di ISBN (pagg.186, euro 7, traduzione di Barbara Ciolli). E il libro, scritto nel 2006, quando la crisi era nell'aria, ma non ancora così dolorosamente tangibile, davvero mette il dito nella piaga degli effetti del rigore, dello statalismo che pretende di rieducare, della volontà di imporre al cittadino una visione unica produttivista.
E se la trasformazione dell'«arbeit macht frei» nazista in uno slogan inglese è forse il giochino più scontato, Zelter in molte altre parti del libro, estremizzando, riesce bene a rendere l'angoscia di una generazione schiacciata dalla paura di perdere il lavoro, dalla continua minaccia del «rigore».

C'è l'incubo dello stage a vita, il gigantismo pubblico che prima pretende l'iniziativa dei singoli e poi li stritola nei suoi meccanismi burocratici. Meccanismi che si incarnano anche nella «formazione a vita», nella tirannia scolastica incarnata da Sphericon. Insomma la fantasociologia è fanta solo sin che non si è disoccupati davvero.

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