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Quando il critico non «tuba» con attori e registi

M entre tutti scrivono di cinema, improvvisandosi critici con un tweet e conoscitori via smartphone, nel primo dopoguerra mitteleuropeo il giovane Joseph Roth (1894-1939) si aggirava nelle sale buie dell'Ufa Palast di Berlino e del Prater di Vienna, commentando i film di Fritz Lang e di Friedrich Murnau per riviste e giornali. Nel 1929, in una recensione apparsa sulla Frankfurter Zeitung , aveva analizzato con competenza tecnica il film Der letze Mann lodando Carl Mayer quale «poeta del cinema» e celebrando il film come «opera di poesia … che dipinge, canta e pulsa direttamente attraverso le immagini». Quel mercato di ombre, però, non piaceva allo sferzante scrittore ebreo austriaco: la macchina da presa che ritrae i soldati morenti è il diavolo che ruba loro l'anima e certi spettatori, come gli operai slovacchi «dai globi oculari sporgenti e senza alcun nesso col cervello» o come i reduci, «storpi in condizioni degradanti», gli apparivano figli dell'universale manipolazione di massa.

Tuttavia Roth non si mostra sempre puntuto verso la Settima Arte, che comunque considera una Fata Morgana artificiale, buona a illudere «la piccola aiuto commessa che si comportava come una dama» o «la bionda cartolaia della bottega all'angolo, che mimava una principessa». Lo si capisce leggendo L'avventuriera di Montecarlo. Scritti sul cinema (1919-1935) (Adelphi, pagg. 285, euro 12), a cura di Leonardo Quaresima, che ha tradotto, insieme a Roberto Cazzola, una significativa scelta di feuilletons e recensioni rothiani, compresi tra il 1919 e l'inizio degli anni Trenta. Ciò che qui più interessa, oltre certi quadretti di vita vissuta, è la lungimiranza fulminante. Quell'idea degli «attori come ombre», che a Hollywood non vendono soltanto la loro vita, ma anche la loro morte «perché hanno percepito un cachet», evoca l'attuale tendenza a riesumare, post mortem e per motivi di marketing, divi come Paul Walker o Bruce Lee. Se il mondo antico conosceva l'Ade, «la dimora dei defunti diventati ombre», l'Ade dei vivi è il cinematografo. Eppure il fustigatore dei costumi hollywoodiani, pensando di emigrare in America, con i nazisti alle porte e la «dinamica del bere» come pratica feriale (Roth morirà alcolizzato, in esilio a Parigi), a un certo punto si mise a scrivere storie per il cinema. Insieme a Vicki Baum, Fritz Kortner, Heinrich e Klaus Mann, Roth ha scritto sceneggiature per l'agenzia di Paul Kohner, che aiutava gli antinazisti a emigrare negli Usa. Perché un po' di divertimento, in sala, pure l'ha provato Joseph Roth. Come quando, seduto in mezzo a novecento bambini smagriti dalla miseria berlinese, «il cui triste aspetto da pesi leggeri è stato reso tanto familiare dalla compassione europea», vede Grandi cacce nell'Africa equatoriale e ride fino alle lacrime. O quando, nell'antica arena romana di Nimes, assiste alla proiezione serale de I dieci comandamenti , con l'orchestrina seduta davanti allo schermo.

Roth, appassionato di Buster Keaton, terrà aperta una vena di disprezzo per attrici grassocce come Henny Porten o Adele Sandrock, poi eroine dei film in camicia bruna e persino per Lubitsch, che mostra «tre cose essenziali per la regia: soldi, soldi e ancora soldi».

Senza facili moralismi, tale disistima per il cinema si riverserà ne L'anticristo , avvelenato pamphlet sui mostri della finzione. Chissà cosa scriverebbe, oggi, Roth, dei mediocri film sovvenzionati dal denaro pubblico.

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