Vogliamo davvero che il mercato del libro torni a essere più umano (in Italia si stampano circa sessantamila libri l'anno)? Allora gli editori dicano agli autori i reali numeri di vendita delle loro opere (se ne avete vendute sopra le trecento, sappiate che è già un successo), e prima ancora di prenotazione (vi stupireste se vi dicessero che in tutte le librerie italiane ne sono state prenotate anche meno di cento?). Basterebbe questo a far smettere di scrivere la metà degli autori.
Non c'è dubbio che gli italiani leggono poco e quel poco molto spesso è suggerito dai canali d'informazione e comunicazione di maggiore risonanza. Del resto compiere una scelta autonoma e consapevole di lettura è divenuto sempre più difficile. I grandi gruppi editoriali rincorrono il mercato e il sistema di promozione e distribuzione del libro non riesce a sostenere le novità delle centinaia di altri piccoli e medi editori, che molto spesso non raggiungono neppure gli scaffali delle librerie. Ma gli editori si dicono: se non stampo molto (la promozione, a un piccolo editore, suggerisce di non scendere mai al di sotto delle venti novità annue) non faccio fatturato. Ma chiediamoci cosa sia effettivamente per un editore un fatturato. Un libro, prima della messa in stampa, si promuove, nel senso che l'editore prepara di quel prodotto delle cedole accattivanti, magari ne stampa un sedicesimo (un piccolo assaggio di lettura che il libraio non assaggerà mai - perché non ne ha il tempo) e le spedisce alla sua rete promozionale. La promozione gira il materiale ai suoi agenti, che con i loro faldoni pieni di materiale che non venderanno mai (ognuno di loro promuove dieci, quindici case editrici e molto spesso non ha la più pallida idea di cosa stia cercando di vendere) tartassano i librai ogni mese con centinaia di novità. Nel giro di un paio di mesi arrivano sul tavolo dell'editore i risultati delle prenotazioni - quasi sempre disastrosi. Ma il punto è che pure se di un libro, in tutto il territorio nazionale, se ne sono prenotate cento copie, significa che l'editore riceverà in anticipo il profitto di quel prenotato, come se il libro lo avesse già venduto. Già: come se. Cioè, pur non avendolo ancora stampato, il libro ha prodotto un utile, ma quell'utile non è altro che un prestito. Sì, perché delle cento, duecento, mille copie che l'editore stamperà, è molto probabile che la metà il libraio le mandi in resa perché non vendute (e allora, per l'editore, cominciano i costi di resa e quelli di magazzino, dove i libri restano a prendere polvere). E il libraio non potrebbe fare altrimenti, perché non possiede spazio a sufficienza per ospitare cento, duecento, duemila novità ogni mese nei suoi ripiani già sopra-stipati. Cosa succede, dunque? Succede che per non rimetterci, l'editore deve pubblicare ancora, e ancora, perché pubblicando aumenterà il fatturato, quel fatturato che è stato solo l'illusione di un momento. Di fatto però, sta solamente reiterando un prestito. È il classico gioco del cane che si morde la coda: prima o poi, o non sai più cosa stai rincorrendo, o crolli sfinito. Insomma, tutti sono responsabili ma nessuno è davvero colpevole. Il risultato è una moltiplicazione dell'offerta editoriale, con la conseguente scomparsa, quasi totale, dei progetti culturali.
Un'ipotesi, forse utopica, potremmo però sollevarla.
Se gli editori - e mi riferisco ovviamente ai medi e ai piccoli - proponessero ognuno il proprio progetto culturale, ed editoriale, che possano presentare ai lettori con chiarezza senza avere l'ossessione (e la mania suicida) di imitare o concorrere con i grandi gruppi; e se gli stessi editori, forzando il sistema, riducessero le novità ma valorizzassero ogni singola pubblicazione, cercando di tenerla in vita più della solita manciata di mesi, se non di settimane, senza essere costretti a mollarla anzitempo nei magazzini, questo non permetterebbe di ristabilire un rapporto tra libri e lettori più consapevole (e più credibile) e di ripristinare una sanità del mercato editoriale?
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