Ma com’è che in Italia la storia è sparita? Non mi riferisco alla fine della storia, secondo il noto tormentone di Francis Fukuyama. Dico proprio l’interesse per la storia, per i testi storici, per la storiografia e i suoi più controversi capitoli. C’è un calo vistoso, tra l’amnesia, la nausea e la sazietà. Avevamo tanti difetti, noi italiani, e non siamo mai stati gran lettori, ma la passione storica ci coinvolgeva, anche perché si esercitavano le tifoserie retrospettive. C’erano riviste storiche che andavano forte, da Historia a Storia Illustrata, i settimanali d’opinione vendevano di più quando avevano in copertina personaggi e inchieste storiche (non vi dico col duce); la storia divulgativa, sulla scia di Indro Montanelli (con Mario Cervi), andava alla grande, tra Massimo Grillandi e Antonio Spinosa, Giorgio Bocca e Giorgio Pisanò, Mario Tedeschi, Roberto Gervaso e Franco Bandini, Antonino Trizzino e Gigi Romersa, Carlo de Biase e Adriano Bolzoni, e tanti altri; e perfino la storiografia accademica, tra Renzo De Felice e Rosario Romeo, ma anche a sinistra, con Paolo Spriano, Beppe Vacca, Nicola Tranfaglia e altri, faceva opinione e creava interesse. E non mancavano memoriali e contro-memoriali, una fiorente pubblicistica di testimonianza e di nicchia che alimentava ambienti culturali e politici. Da tempo, invece, si è spento o affievolito l’interesse per la storia.
Il comunismo è sparito come se mai fosse esistito e si occultano con fastidio opere e ricerche che riportano alla luce i suoi crimini e misfatti. Il fascismo è ridotto al nazismo e identificato con il razzismo; tutto si riduce al lager. Del resto della storia non si vede neanche l’ombra, salvo la fiammata critica sul risorgimento come contropelo padano e terrone dei 150 anni d’Unità. Ogni avvenimento del passato viene sottratto al giudizio storico e perfino ideologico, per entrare piuttosto nel pregiudizio emozionale, sempre sommario.
La stessa cosa vale in positivo, l’iconografia trionfante di Che Guevara è uscita dalla storia per entrare nella fiction, è una pura immagine decontestualizzata e deideologizzata; un top model della rivoluzione, un look accattivante da imitare. La stessa cosa avviene col diffuso fascio web, gesti e simboli destoricizzati. Di tutta l’altra storia non si vede l’ombra. È declinato anche l’interesse verso alcune epoche storiche come il Medio Evo che aveva un pubblico vasto e appassionato. La memoria è passata dalla storia alla morale e il giudizio storico tocca ai tribunali che possono punire alcuni revisionismi ritenuti indecenti. Quando si parla di radici del presente l’orizzonte viene ridotto all’agiografia della Costituzione; il resto è preistoria.
Se la politica interessa sempre meno o si riduce a una questione di abusi e di sprechi, se la passione civile manca, è anche perché non c’è più vita sul pianeta storia. Certo, si potrebbe anche dire l’inverso, che l’anoressia politica produce inappetenza di storia. Ma un fenomeno non spiega l’altro, semmai ciascuno rafforza l’altro. La politica spegne la storia, la non-storia spegne la politica.
Ma da cos’altro dipende questo declino della storia nell’interesse pubblico? La motivazione più ricorrente, ormai divenuta quasi ovvia, è «la dittatura del presente» o «il totalitarismo del web» che ci immette in un gossip globale ed estemporaneo che si fa «chiacchiere e distintivi» senza alcun approfondimento, alcuna retrospettiva, alcuna ricerca dei presupposti e dei precedenti. Ma credo che qualche responsabilità l’abbia anche la «storiografia ufficiale», un’espressione che mette scuorno a Giuseppe Galasso, autorevole storico ufficiale che è tornato a risentirsi di ciò nella cerimonia ufficiale al Quirinale dello scorso 17 marzo. La storiografia ufficiale è quella accademica che vigila sul Canone e sulla sua osservanza, che non riconosce la funzione revisionista della storia e disconosce ciò che esula dal suo cono di luce; ammette la ricerca nel dettaglio a patto che consolidi il Giudizio e non lo smentisca. Abbiamo dovuto aspettare gli storici divulgatori e giornalisti, come Giampaolo Pansa e Pino Aprile, Gianni Oliva e Arrigo Petacco, Paolo Mieli e Giordano Bruno Guerri e altri, per sapere qualcosa di più e finora di non detto, non riconosciuto, sulla guerra partigiana e gli eccidi del dopoguerra, la storia d’Italia e la conquista del sud; le foibe e i regimi comunisti, su alcune biografie, sul caso Mattei o sulle pagine nere della nostra repubblica. La storiografia ufficiale si è distratta su questi temi, non ha raccontato i lati in ombra, si è limitata a certificare la verità consolidata, a confermare il canone. Ha responsabilità non lievi se la coscienza storica si è narcotizzata.
Naturalmente non mancano storici rispettabili e opere di spessore. Mi sovvengono alcuni nomi ma mi trattengo dal farli per non dimenticarne altri. Né va dimenticato il ruolo di alcuni che si sporgono fuori dagli atenei e hanno visibilità in ambiti più legati all’attualità, ai media, alla politica che alla storiografia: da Galli della Loggia a Giovanni Sabbatucci, da Lucio Villari a Luciano Canfora, da Franco Cardini a Francesco Perfetti.
Ma c’è un altro aspetto che non va trascurato e riguarda il metodo e lo stile. Diceva Gioacchino Volpe, ispirandosi a Labriola, che la storia per essere credibile e appetibile, dev’essere «scienza del procedimento e arte della narrazione», ovvero da un lato rigorosa ricerca che ricostruisce come sono andate le cose e dall’altro capacità di raccontarle, di coinvolgere il lettore. De Felice, ad esempio, era dotato della prima ma non della seconda, come notava Montanelli (a cui forse si poteva rimproverare l’inverso, ma lui non pretendeva di scrivere testi scientifici). Volpe, che fu accademico ma in origine anche giornalista, anzi correttore, era dotato di ambedue.
Il risultato è un indigesto cumulo di ovvietà ma corredate da un sontuoso apparato di note. Tanto condimento per pietanze così scarse.
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