di Nicola Crocetti
La marea che porto nel cuore
Ne va risalendo la china
Io muoio del mio bambino
Il mio cigno la mia sorellina
Una nave ben stivata
Sicura potrà navigare
Dal mio firmamento piovono
Anni luce ed io lascio fare
Io sono lo spettro Jersey
Che viene la sera per gioco
A lanciarti baci di nebbia
A racchiuderti in rime da poco
Come nelle arti di luglio
Vedevo brillare la rabbia
Del lupo solitario
Per la terra dalle dita di sabbia \
(Traduzione di Enrico Medail)
Monumento della chanson d'auteur francese, Léo Ferré è stato anche - più di Georges Brassens e di Jacques Brel, con i quali rivaleggiava - un grande poeta. Uno dei pochissimi, tra i numerosi chansonnier che amano fregiarsi dell'ambìto titolo di poeta, che avrebbe davvero meritato il Nobel per la letteratura. Nato a Montecarlo nel 1916, trascorre otto anni in un collegio religioso a Bordighera: un calvario personale da cui germoglia il seme anarchico della sua anima libertaria. Il padre, direttore di un casinò, gli impedisce di frequentare il Conservatorio, e Léo studia musica da autodidatta, lavora a Radio Montecarlo, suona il piano, scrive poesie e canzoni. Dopo la guerra si trasferisce a Parigi dove, incoraggiato da Édith Piaf e Juliette Gréco, canta nei cabaret di Saint-Germaine. Compone brani d'opera, una sinfonia, un oratorio, dirige musiche di Beethoven e Ravel, e riveste della sua magia musicale centinaia di testi di Rimbaud, Baudelaire, Verlaine, Apollinaire, Aragon, Pavese, oltre ai propri. Quando la fama arriva, gli procura idolatrie e odî: è ostile a ogni forma di potere, perché, al pari dei grandi poeti del passato, si considera un terrorista della parola. A causa sua, sostiene Aragon, la storia della letteratura dovrà essere scritta in modo diverso. Dopo un concerto a Milano, Giovanni Testori scrive parole memorabili sulla sua «voce roca e solenne, rabbiosa e trepida», lo definisce «blasfemo e liturgico, pio ed empio, erotico e casto», e denuncia la miopia culturale che ha impedito di riconoscere la sua vera dimensione artistica.
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