Ogni fallimento di Balzac è un trionfo. Lui ci rimette dei soldi e noi ci guadagniamo. Se va male, un bel romanzo, se va bene, un capolavoro. È quasi un teorema matematico, e cambiando l'ordine dei fattori il risultato non cambia mai. Dobbiamo quindi ringraziare i suoi fallimenti come editore, come titolare di tipografia, come padrone (padrone, parola assurda per lui, sempre schiavo, invece, delle Illusioni perdute...) di una fonderia di caratteri tipografici. Dobbiamo ringraziare le sue cervellotiche decisioni di coltivare ananas in Francia e di estrarre oro in Sardegna, di collezionare (svenandosi, per poi rivenderli a pochi franchi), quadri, mobili, sculture. E siccome anche le donne sono, per la sua natura popolana, affamata e pantagruelica, equivalenti a beni di proprietà, dobbiamo ringraziare in sommo grado i due di picche indorati dalla pillola della tenera amicizia che si prese a venti, trenta e quarant'anni.
Il suo motto era «una femme et une fortune», ma non possedeva uno stemma araldico su cui inciderlo, si doveva accontentare del «de» posticcio appiccicato al cognome. Vi rimase tuttavia fedele fino all'ultimo, realizzando soltanto in zona Cesarini il gol a lungo cercato, sposando cioè l'altera madame Hanska e portandola, dopo lungo penare e supplicare, dall'Ucraina a Parigi, piazzandola in una casa lussuosa e un po' pacchiana e infine... di lì a poco, morendo. Così, dopo che Victor Hugo, il «collega» che più lo stimava, l'unico che non era scoppiato a ridere quando il povero Honoré si era candidato a un posto nell'Accademia (ottenne la miseria di due voti...), nell'agosto del 1850, aveva salito le scale che portavano alla sua stanza, guidato dal cavernoso rantolo di una terribile sofferenza, l'autore dei Miserabili potè scrivere: «Scesi portando con me nel ricordo quella livida faccia, traversando il salotto ritrovai il busto immobile, impassibile, altero e vagamente radioso e feci il confronto tra la morte e l'immortalità».
Ecco, una volta ringraziato Balzac, maldestro imprenditore di se stesso, ora dobbiamo ringraziare il destrissimo e informatissimo e ammiratissimo Stefan Zweig per la biografia che gli dedicò. Uscita postuma a Stoccolma nel '46 e quattro anni dopo in Italia da Mondadori, finalmente torna nelle nostre librerie (Castelvecchi, pagg. 378, euro 22, traduzione di Lavinia Mazzucchetti). Il sottotitolo è «Il romanzo della sua vita». E visto che a scrivere di un grande romanziere è un altro grande romanziere, anche stavolta cambiando l'ordine dei fattori il risultato non cambia. Però il saldo è positivo al cubo. Con i suoi occhietti penetranti e indagatori, Zweig vede tutto e annota tutto, dal misero tavolino su cui nascono La pelle di zigrino e Louis Lambert alle carrozze sbalestrate che conducono Honoré dalle sue femmes poco fatales e molto realiste, dal baccano della capitale ai silenzi del castello degli amici Margonne, dalle privazioni subite da collegiale ai sogni di gloria soltanto sfiorati. E soprattutto il biografo indulge volentieri nel sottolineare la doppia vita del biografato che è, in fondo, la doppia vita di ogni artista: da una parte quella reale, dall'altra quella immaginata. Una sola amica vera non contaminata dalla passione, Zulma Carraud, pochissimi amici veri non ingolositi dall'interesse, con il medico Nacquart su tutti.
Ma non attribuendosi il ruolo del regista che governa, bensì quello del servo di scena: il più umile dei ruoli. E, proprio per questo, anche il più nobile.
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