Danni irreversibili, ma Sharon non s’arrende

Dopo due operazioni per fermare l’emorragia cerebrale si è reso necessario ricorrere al coma farmacologico. I chirurghi: «Per un quadro clinico preciso dobbiamo attendere 48 ore»

Gian Micalessin

Gli occhi che han visto tanta storia son gli unici a scintillare ancora. Contrazione di pupille per un raggio di luce. Null’altro. È tutto quel che resta dopo l’ultima battaglia, dopo la lunga infinita notte. Un calvario su quel gigante intubato. Una caccia disperata a quei rivoli di sangue che continuavano a sgorgare, ad inondare il cervello, a spegnere il grande combattente. Il professor Shlomo Mor Yosef, direttore dell’Hadassah Ein Karem, l’ha vissuta minuto per minuto. Non s’è arreso. Non s’arrende. Dopo l’emorragia combatte le voci, l’angoscia, i sussurri disperati che danno il suo paziente già per morto. O per mai più vivo. «Sono quei per aggiornarvi – dice ai giornalisti - ma anche per arginare le voci che stanno inondando il Paese». Ma non può dire quello che in Israele tutti vorrebbero sentirgli pronunciare. Può sfatare il pessimismo più nero, non regalare speranza. «È un processo lento - risponde a chi gli chiede se Arik può riprendere conoscenza - non succederà nelle prossime ore, devono passarne almeno 48 dalla fine dell’operazione». Ma le operazioni sono state due. Il primo calvario, iniziato verso le 23 di mercoledì, è durato fin le 5 del mattino. Alle 5 e 30 quando anche Bolek Goldman, amico e medico personale di Arik, lascia l’Hadassah, lassù, in camera operatoria, la battaglia ricomincia. La Tac esplora i meandri della scatola cranica, rivela un'altra emorragia. Tutto da rifare. Il gigante ritorna in sala operatoria. Mascherine, laser, occhiali di precisione tornano ad esplorare quel cervello che annega nel sangue.
Ore dopo la seconda operazione è sulla bocca di tutti. Chi ha sbagliato? Perché non s’è vista la seconda emorragia? Che cosa l’ha provocata? Chi ha dato retta a Sharon e l’ha portato non all’ospedale più vicino, ma all’Hadassah di Gerusalemme distante più di un’ora di macchina? Quell’ora di macchina dà tempo al secondo ictus di sviluppare tutta la sua forza distruttiva. Assieme a sospetti e accuse dilagano le voci di morte cerebrale. Con loro corrono i fantasmi antichi di quell’ altro «caudillo» sopravvissuto a se stesso più dell’eticamente dovuto.
Sul banco degli accusati ci sono gli anti coagulanti. Dovevano prevenire altri ictus, ma hanno scatenato emorragie inarrestabili. Chi li ha prescritti? Chi da deciso le dosi? Altre voci arrivano dagli stessi uffici di Sharon. Parlano di danni cerebrali certi, di recupero impossibile. «La Tac mostra che l’emorragia si è fermata» ripete il professore Mor Yosef. Ma sui danni irreversibili non si sbilancia. Non conferma. Non smentisce. «Tutti i segni vitali sono funzionali e stabili. Il primo ministro è in condizioni critiche». Parole che non rassicurano. Svangate di spazzola che ramazzano dai cuori israeliani anche l’ultima briciola di fiducia. La radio sintetizza tutto in sei parole: «La sua vita resta in pericolo». Mor Yosef ridimensiona, ridisegna quel limbo tra vita e morte, cancella la definizione di coma irreversibile, la sostituisce con quella di coma farmacologico. «Tutti i parametri corrispondono a quelli successivi a questo tipo d’intervento – spiega il professore – tra le cure somministrate rientrano la sedazione e la respirazione artificiale per abbassare la pressione del cranio. Vi prometto che qualsiasi cambiamento nelle condizioni verrà annunciato». Tutti sanno che non potrà essere vero. Gli ordini, in caso di morte del premier, prevedono di mettere all’erta i servizi di sicurezza, le forze di polizia e i reparti dell’esercito incaricati di sigillare Gaza, Cisgiordania e i confini del Paese. Dunque in ogni caso tra la morte clinica e quella annunciata non potranno passare meno di sei o dodici ore.
In quest’oceano di paure e trepidazione l’unica cosa che sembra tenere è l’incredibile fiducia dell’elettorato nel partito fondato da Sharon. Secondo un sondaggio, commissionato da Haaretz e da Canale 10, Kadima potrebbe ancora conquistare 42 seggi se a guidarne la corsa ci fosse Shimon Peres. Con Ehud Olmert alla testa i seggi sarebbero soltanto due di meno, ma scenderebbero a 38 se la successione fosse affidata al ministro della giustizia, Tzipo Livni. Previsioni del tutto analoghe, dunque, a quelle precedenti la malattia di Sharon.

Previsioni, dice qualcuno, tenute in piedi dall’ultima speranza di un impossibile risveglio. Speranze, aggiunge qualcuno ancor più pessimista, che da qui alle elezioni faranno in tempo a sciogliersi in quell’infinita, silente notte nera calata sul mondo del generale mai sconfitto.

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