De André: inni d’amore e poesia per gli ultimi che lui sognava primi

Esce il seguito di «In direzione ostinata e contraria», il cofanetto che l’anno scorso è volato in cima all’hit parade

da Milano

«Voglio che la mia poesia aderisca alla vittoria dei maltrattati»; è il credo di Neruda nella poesia Yo soy, lo stesso credo che, partendo dai caruggi di Genova, «in direzione ostinata e contraria», ha sempre mosso il toccante e spesso ruvido realismo delle canzoni di Fabrizio De André. Un artista popolare - cioè che appartiene al popolo - lui che continua a rilanciare i suoi passionali appelli oltre il silenzio della morte. Cosa può aggiungere De André a De André? Emozioni sempre uguali e sempre diverse attraverso brani mille volte sentiti ma in cui si scoprono nuove sfumature poetiche. L’anno scorso è uscito il triplo In direzione ostinata e contraria. Risultato? 300mila copie vendute e un primo posto che ha nobilitato l’hit parade. Ieri è uscito il seguito, In direzione ostinata e contraria 2, altri tre cd, 53 brani, libretto con i testi delle canzoni e introduzione dello scrittore sardo Salvatore Niffoi che scrive: «In ogni sua canzone è presente la poesia come atto d’amore e di riscatto verso l’umanità ferita, dimenticata; verso quegli ultimi che lui sognava primi in questo mondo, non nell’improbabile altro». Così il cofanetto - nuovo tassello delle celebrazioni deandreane - raccoglie perle sparse attraverso 14 album saldando con il collante della nuda irruenza melodica dei suoni e con la sanguigna passionalità dei testi la storia all’attualità. Sfilano così La stagione del tuo amore, S’i fosse foco, Fila la lana, Cantico dei drogati; s’inanellano le sue prospettive «religiose» in L’infanzia di Maria, Laudate hominem, Il ritorno di Giuseppe. Quando scrisse La buona novella infatti spiegò: «Fu un album rivoluzionario per come desacralizzava i personaggi evangelici esaltandone l’umanità». Poi ci sono Il matto e Il medico che lo legano a doppio filo a Edgar Lee Masters; c’è il dolore della Suzanne di Leonard Cohen targata 1974 e l’ironia beffarda de Il gorilla, cover di George Brassens.
Cohen, Dylan, Waits s’incrociano nel lirismo e nel dar voce ai perdenti, ai «looser». Il testamento, Ballata degli impiccati, Delitto di paese, Via della povertà sono pagine dure e tristi, Parlando del naufragio della London Valour ha il passo del blues. Ma non a caso Fernanda Pivano ammonisce: «Si smetta di dire che Fabrizio è il Dylan italiano, e si capisca che è Dylan, semmai, il De André americano».

Quello che anticipa la musica etnica in Zirichiltaggia per poi trasformarla in capolavoro - con la complicità di Mauro Pagani - in Creuza de ma o nei toni mistici e al tempo stesso anarchici di Le nuvole e Anime salve, i tre album selezionati nell’ultimo cd, sempre e comunque alla ricerca di «una moralità che sia al servizio dell’uomo e non soltanto dei potenti». Trasformandola in speranza e poesia.

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