De Luigi: «Nel mio caffè i curiosi sono benvenuti»

L’attore è il protagonista all’Archivolto di Genova di «Il bar sotto il mare» di Stefano Benni

Miriam D’Ambrosio

da Milano

Fantasia, realtà, sogno, inquietudine, sono miscelati in surreali racconti narrati da strani personaggi che sulla scena hanno una sola voce, quella di Fabio De Luigi. È lui il protagonista de Il bar sotto il mare di Stefano Benni, regia di Giorgio Gallione, che debutta in prima nazionale al Teatro Archivolto di Genova, venerdì (e continua la tournée fino al 12 marzo). Nel bar sotto il mare, in questo insolito ritrovo-rifugio, tutto può accadere. E accade di notte, quando è più facile abbandonarsi alla verità dell’immaginazione. Il talento comico e visionario di Benni si sposa bene con la voglia di contaminazione teatrale di Gallione, che gioca sapiente con la parola, la musica, gli oggetti scenici mutanti, la luce e il colore, fedele allo stupore del suo sguardo bambino. E De Luigi è il burattinaio e cantastorie, voce narrante che si affida alla ballata, alla poesia in versione rockettara. E i curiosi avventori del bar prendono carne e colore, dall’uomo invisibile alla sirena, dal marinaio al barista.
Quando e da chi è nata l’idea di mettere in scena questo testo di Benni?
«Già due anni fa, io e Giorgio Gallione volevamo fare uno spettacolo insieme, da quando mi chiamò nel 2004 per una lettura su Saramago e una su Andrea Pazienza. Nel primo caso ero accompagnato dalla Banda Osiris, nel secondo dalle coreografie di Giorgio Rossi. Lì cominciai ad apprezzare la capacità visionaria di fondere le arti che ha Gallione. Nel tempo, abbiamo cercato quello che poteva essere adatto per me. Poi si è scelto Benni, autore amato da entrambi. Il bar sotto il mare lo avevo letto anni prima e lo sentivo molto mio. Nel 1989 furono i Broncovitz a metterlo in scena con successo. Una forma diversa (loro erano in cinque), questa assomiglia a un monologo. Ci sono solo io».
Ma il bar sotto il mare che luogo è? È un rifugio dove la parola è libera?
«È un posto dove tutti vorrebbero capitare per raccontare di sé o di altro. Sulla scena il luogo è evocato dalle luci che giocano sui toni dell’azzurro e del blu. I neon a terra ricordano l’illuminazione di un bar. Io, in veste di narratore, devo portare il pubblico in questo luogo, catturandolo con i cambi di tono narrativo, seguiti da quelli di luce».
Tv con Love Bags, con Festivalbar, cinema con Comencini, Manfredonia, Chiesa, cabaret, teatro. Un percorso fatto di scelte ponderate e diverse. Nostalgia della Gialappa’s?
«Con la Gialappa’s ci siamo incontrati nel 1998, quando vennero a vedermi a Zelig per poi invitarmi in studio. Io mi presentai. Loro ancora oggi, scherzando, mi dicono che mi sono "imbucato". Andai, ma non si ricordarono di me e ci fu un secondo appuntamento. Lì incontrai Ugo Dighero e Maurizio Crozza che già lavoravano per la Gialappa’s.

È stata una bella avventura che può continuare, non è una porta chiusa. In questo momento faccio cose diverse e il contatto diretto con il pubblico che imprime il ritmo dello spettacolo, è un impagabile scambio di energie».

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