Il dibattito Rilanciare la cultura industriale

L’impresa è il luogo della creazione di ricchezza, delle opportunità per tutti, delle energie positive sprigionate per crescere, per competere nel mondo. Il lavoro nell’impresa è la realizzazione delle persone, dell’integrazione sociale, della crescita professionale. Le radici dello sviluppo civile del nostro Paese si fondano su di una straordinaria vitalità imprenditoriale. Innata nella nostra cultura del lavoro. Nel Dopoguerra, a fianco dei pochi grandi gruppi industriali prevalentemente pubblici, una rete straordinaria di piccole e medie imprese familiari hanno guidato lo sviluppo economico e la trasformazione dell’Italia in un grande Paese manifatturiero. Quelle imprese sono state fondate e sviluppate sul lavoro, non sulla finanza. Operai, innamorati del loro lavoro, profondi conoscitori del prodotto, del processo produttivo, della tecnologia, del mercato, con una forte propensione all’innovazione, si sono «messi in proprio», hanno fondato e sviluppato molte aziende di successo che oggi hanno una presenza nei mercati globali.
Questo è successo in Italia. Vigente la nostra Costituzione. E ancora oggi l’industria manifatturiera ha un peso prevalente in Italia rispetto a molti paesi industrializzati. Ed è successo senza una «politica industriale», senza una scelta strategica, senza soldi pubblici e azioni di sostegno. È successo perché c’era libertà d’impresa, un clima economico positivo in regioni del paese orientate allo sviluppo, predisposte al rischio. Ragioni che sono diventate in poco tempo tra le aree più ricche d’Europa. A contrario nel Sud i soldi pubblici versati attraverso la Cassa del Mezzogiorno, hanno sradicato qualunque cultura imprenditoriale. Aziende pubbliche, investimenti a scopo sociale e politico, fiumi di incentivi e aiuti, hanno sedato lo spirito di intrapresa, sostituendolo con la cultura assistenziale. Hanno abolito la cultura del rischio e del mercato, per sostituirla con la cultura del posto fisso.
Oggi gli imprenditori investono in un Paese nel quale forte è l’ostilità all’impresa e il sospetto verso l’imprenditore, visto come soggetto privilegiato. Si dice che l’imprenditore che investe in Italia è un eroe, perché oltre al rischio d’impresa deve affrontare il rischio dell’incertezza del quadro normativo, un carico di oneri insopportabile, una pressione fiscale che non ha pari in Europa, una retorica politica e sindacale ostile. Ed è un’ostilità e un sospetto che si misurano nel livello di pressione fiscale e nella complessità del rapporto con l’amministrazione, nella pervasività della presenza della mano pubblica, nella iper-regolazione, nei pregiudizi giurisprudenziali, nella aggressività e non curanza della giustizia. Siamo in un Paese dove la libertà di impresa è negata.
Non credo che sia stata la cultura cattolica ad aver creato l’atteggiamento ostile verso le imprese. Grandi manager ed imprenditori cattolici sono stati protagonisti dello sviluppo del nostro Paese. Non si può certo dire altrettanto della cultura comunista e «antagonista» che ha da sempre contrapposto il lavoro all’impresa.
E la diffusione della cultura ostile all’impresa, alla ricchezza generata dal lavoro e al profitto, ha le sue radici nel ’68. Da li quella ostilità è entrata nelle scuole, nei giornali, nelle aule di giustizia, negli apparati dello Stato. A quella cultura il pensiero liberale, laico e cattolico, ha dovuto soccombere. Non è riuscito a contrapporre i valori sani dell’impresa, il valore del lavoro per generare ricchezza e sviluppo, il valore dei doveri da affiancare ai «diritti», il valore della selezione e della valutazione, della crescita salariale basate sulla produttività e sulla profittabilità dell’azienda.

Più che cambiare la Costituzione, oggi è necessario per le imprese e le loro rappresentanze cambiare mentalità, superare le ambiguità e i timori, avere l’orgoglio di difendere la propria libertà.
*Presidente di Confindustria digitale

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