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Dieci mesi di rivoluzione parlando soltanto di José

Ma quante ragioni ha per volersene andare? La signora Milly Moratti dice che questo è il posto migliore per fare il lavoro che fa lui. Ma lui, José, che lavoro fa?
Ieri gli è scappata una lacrima, è apparsa e faceva fatica a scendere, si è fermata, José ha strizzato gli occhi, lei ha trovato un varco, l’ha persa, non è da José. Le emozioni sono una cosa, la debolezza un’altra. Una lacrima l’ha tradito, per i distratti l’ha avvicinato, proprio adesso che tutti s’inchinano e a lui frega zero. Era già successo, poi ha visto come è bastato poco per averli nuovamente tutti addosso. Un giorno ha capito che questa non era casa sua e questo non era il posto migliore per vivere, ma non c’e stato tempo per pensare, ieri era alla 66ª di questa stagione, 16 luglio Ucla University-Inter a Los Angeles, c’erano Burdisso e Ibrahimovic già venduto, 16 maggio Siena-Inter, 18° scudetto, gol di Milito, in campo con Lucio, Thiago Motta, Sneijder, Eto’o e Pandev, sei nuovi, nuova Inter, ribaltata la squadra campione d’Italia. E ribaltato il gioco. Prima era lancio a Ibra, palla sotto la suola, lui che faceva un paio di ola con i fianchi, squadra che saliva, giù gli applausi. Adesso è palla a terra, possesso, anzi quando gira strano è paradosso, è controllo della partita senza la palla, delirio cerebrale allo stato puro, resa vigile.
Dieci mesi senza buttare niente, via Ibra, Adriano, Crespo, Cruz e Suazo, rivoluzione. Nella penombra della hall di quell’albergo di Boston, José stava disegnando un’altra Inter: «Ho chiesto a Branca di interessarsi per un centrale difensivo, il Bayern ne ha quattro, magari ce ne dà uno». Lucio era già dell’Inter, anche a noi ci gira come vuole. E Sneijder stava arrivando da Madrid, l’ha messo dentro subito, 4-0 al Milan, seconda di campionato. Prima c’era stata tutta la storia di Muntari e il Ramadan, adesso farebbe notizia zero, ogni vicenda ha la sua gloria, basta tirarla fuori al momento giusto, tutti possono essere eroi, magari per un giorno. A Cagliari prima squalifica della stagione per difendere Eto’o, è teatro, tutto studiato. A gennaio Eto’o torna dalla coppa d’Africa e va in panchina: «Devi dimostrarmi che meriti una maglia». A Eto’o. Con l’Udinese Sneijder segna al 3’ di recupero, giro del campo con la giacca che ruota come due pale, a Genova lascia il 4-3-1-2 e mette Balotelli unica punta, quattro gol a zero alla squadra che giocava il miglior calcio. Niente è casuale, Santon con la Roma neppure convocato, Balotelli gonfiato come un canotto. La Juve? A Torino gioca mezz’ora con il tridente, gli piace, ci fa il resto del campionato. Adesso dice: «Perché non parlo? Ho fatto una battuta sul Siena che se ci avesse sconfitto avrebbe pagato il premio salvezza a una squadra che invece è retrocessa. E ho rischiato di non essere neppure in panchina nel giorno di questo scudetto». Dalle manette al ritardo sul rientro in campo dopo l’intervallo. Inter-Chievo, ultima in casa, Balotelli si scontra con Sorrentino in area, resta giù un minuto, il portiere che lo accarezza. Non si era fatto niente, ma a gioco fermo mezza squadra va da José a prendere ordini, tutto programmato. Poi Balotelli si rialza, applausi, Sorrentino gli batte una mano sulle spalle. È l’Inter di José: «Ci battete solo se restiamo in sei». Il 20 dicembre chiude il girone d’andata con 8 punti sul Milan e 9 sulla Juventus, la Roma non si vede, escono le prime voci: «Resto fino al 2012 e voglio il secondo scudetto». Dopo Inter-Samp, 20 febbraio, gli arbitri minacciano lo sciopero contro di lui: «Non io contro tutti, ma tutti contro di me. È diverso».
Dieci mesi senza parlare della squadra, solo di José. A nessuno viene il dubbio? Ormai è pronto per diventare una società, è completo, ha il suo staff, preparatore atletico, dei portieri, un addetto stampa, un agente come Jorge Mendez che può procurargli tutta la merce fresca che desidera dai migliori mercati, si sposta come le squadre professionistiche negli Usa, il nome resta, la città cambia, dipende dall’offerta, lui garantisce obiettivi. Dice: «Il vostro calcio non mi piace, non mi piacciono le vostre ipocrisie, non mi piace dar da mangiare ai miei figli in questo modo».

Ha cambiato la storia dell’Inter, dice che neppure a Stamford Bridge ha avvertito questa empatia, è uscito dalla pellicola. È più del colonnello Walter E. Kurtz sul Nung nella giungla cambogiana, la gente interista è alla comunione: chi volete, Barabba o José Mourinho? E tutti urlano: José Mourinho.

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