Dissidenti iraniani: quegli alleati da non «bruciare»

Livio Caputo

Costringere gli ayatollah a rinunciare all’arricchimento dell’uranio attraverso l’Onu, distruggere gli impianti con un blitz aereo o con operazioni di sabotaggio, cercare di rovesciare il regime ed esportare la democrazia anche a Teheran: delle tre opzioni possibili per impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare la terza sembra a molti la più praticabile. La strada del Consiglio di Sicurezza intrapresa questa settimana si presenta infatti irta di ostacoli e l’ipotesi militare è considerata di difficile attuazione e rischiosa sul piano politico. In questa ottica bisogna guardare alla decisione di Washington di stanziare 75 milioni di euro per aiutare la resistenza iraniana, attraverso finanziamenti alle organizzazioni politiche in esilio, sostegno alle radio e alle televisioni satellitari.
Ma quali sono le reali possibilità di destabilizzare la teocrazia iraniana e su quali forze può contare l’Occidente? Il quadro è complesso, per non dire confuso. C’è una fortissima diaspora - almeno tre milioni di persone fuggite dall’Iran dopo la rivoluzione khomeinista contro la Scià - che oggi è dispersa tra Europa, America e Australia, si è rifatta una vita ma non ha rinunciato a rientrare un giorno in patria. Un buon numero si è stabilito anche in Italia e non rinuncia a farsi sentire. Un problema è che questa comunità è divisa in varie fazioni. La struttura principale è il Consiglio nazionale della Resistenza iraniana di Mariyam Rajavi, vedova di Massud, fondatore dei Mujaheddin del Popolo assassinato a Parigi da emissari del regime. La Rajavi è molto attiva e ha un certo seguito in Europa, ma la sua organizzazione ha forti connotati marxisti e il suo braccio armato, che negli anni ’80 mise radici in Irak e collaborò con Saddam Hussein, è sulla lista delle organizzazioni terroristiche degli Usa e dell’Ue. È probabile che, entro breve tempo, questa anomalia possa essere corretta, ma gli esiliati di fede liberale o monarchica sarebbero restii a collaborare con un movimento che presenta molti lati oscuri e non ha più solidi punti di riferimento in patria. Questi iraniani laici e moderati mancano di organizzazione e di un leader, perché Ciro Reza, l’erede al trono in esilio, non sembra avere né volontà, né personalità necessarie a guidare una seria resistenza.
Più realistico sembra puntare sulla opposizione interna, per quanto decimata da persecuzioni, arresti ed esecuzioni (l’Iran è oggi il Paese al mondo con il maggior numero di condanne a morte rispetto alla popolazione). Anche qui, tuttavia, abbiamo a che fare con un fronte tutt’altro che compatto. A seguito della strisciante crisi economica e della svolta oscurantista del nuovo presidente Ahmadinejad, gli oppositori della teocrazia sciita sono in continuo aumento negli ambienti intellettuali, nella borghesia mercantile, nella gioventù laica e modernizzante della capitale, nelle minoranze azere, arabe, curde e baluchi. Ciascuno di questi gruppi ha rivendicazioni diverse e incompatibili e l’unico minimo comun denominatore è l’insofferenza verso il regime. Ma se essi sentissero di godere dell’appoggio internazionale e fossero coordinati, potrebbero creare problemi tali al regime da indurlo a più miti consigli.

Nel perseguire questa strategia, cui pochi si opporrebbero sul piano internazionale, l’Occidente dovrebbe da un lato operare con unità di intenti, evitando dannose divisioni, dall’altro evitare di provocare, con iniziative errate, reazioni di tipo nazionalistico che ricompattino il Paese.

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