«Il Dna è il suo, Ghira è morto» La Colasanti: non ci credo lo stesso

La sopravvissuta al massacro chiederà un milione di euro di risarcimento

Alessia Marani

da Roma

È di Andrea Ghira, il terzo massacratore del Circeo, il cadavere del legionario sepolto sotto falso nome dal settembre ’94 a Melilla, in Spagna. Lo confermano i risultati di laboratorio sul confronto del Dna estrapolato dalla salma dieci giorni fa dagli uomini della squadra mobile romana volati nell’enclave iberica in terra marocchina, e i reperti organici prelevati sulla madre e il fratello dello scomparso. Secondo la dottoressa Carla Vecchiotti dell’Istituto di Medicina legale dell’Università La Sapienza di Roma, gli esami effettuati consentono di accertare in maniera «concludente» che il Dna isolato da un femore del defunto appartenga a Ghira. Come ieri ha ufficialmente annunciato la Procura capitolina mettendo la parola «fine» all’ennesimo capitolo di una vicenda intrisa di sangue e d’orrore che sconquassò l’Italia degli anni ’70 e non solo.
Un giallo che, invece, per Donatella Colasanti, all’epoca dei fatti 17enne (era il settembre del ’75 quando nella villa dei genitori di Ghira al Circeo si consumò l’orrore di sevizie, torture e follie nei confronti della ragazza, scampata solo perché si finse morta, e della sua amica Rosaria Lopez, 22 anni, brutalmente uccisa da Angelo Izzo e Gianni Guido con la complicità di Ghira) è tutt’altro che risolto. «Ghira - dice - potrebbe essere ancora vivo. Bisogna continuare a cercarlo. Non ci credo, non posso convincermi che dietro l’identità del caporalmaggiore Massimo Testa de Andres, morto per droga e seppellito nel piccolo cimitero di Melilla, possa nascondersi davvero Ghira. Forse è un suo parente ed ecco perché il Dna corrisponde. Poi ci sono le foto scattate dai carabinieri a Roma nel ’95 che immortalano un uomo del tutto somigliante a Ghira. E oggi magari starà ridendo di quel che accade. Questa di Melilla è un’operazione studiata a tavolino. Chi sa parli».
«È una conclusione che aspettavamo - aggiunge Letizia Lopez, sorella di Rosaria - e che in un certo senso ci dà serenità. Ma la battaglia per la verità prosegue. Vogliamo sapere chi ha aiutato Ghira in tutto questo tempo». «Per noi - spiega Alberto Intini, a capo della Squadra Mobile di Roma - le ricerche del latitante Ghira terminano qui. Adesso a indagare su eventuali favoreggiamenti sarà la magistratura». Tanti gli interrogativi a cui rispondere e le «stranezze» da svelare di una latitanza durata trent’anni. Innanzitutto: chi ha aiutato Ghira a procurarsi un falso certificato di nascita all’anagrafe di Roma per ottenere tra il ’90 e il ’91 la cittadinanza spagnola? E perché mai, nell’80 prima e nell’82 poi, in seguito a due arresti per detenzione di hashish e per il furto di un’auto, alla polizia italiana, che aveva chiesto alle autorità spagnole di poter confrontare le impronte digitali del recluso Massimo Testa, non arrivò mai risposta? Poi c’è la questione del risarcimento. Secondo una sentenza del ’96 la famiglia Ghira è chiamata a risarcire in solido a Donatella 900 milioni di lire. Nel 2000 il padre di Andrea morì e lasciò un’eredità. Allora i familiari fecero istanza per il certificato di morte presunta per Andrea.

«Adesso, appurati i termini di prescrizione - dice il legale della Colasanti, Mauro Cimino - valuteremo se chiedere un nuovo risarcimento per danni morali e materiali, anche fino a 1 milione di euro alla famiglia Ghira, che ha volutamente taciuto questa verità».

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