Dobbiamo puntare su un contratto di vera formazione

Il rapporto sull’occupazione dell’Ocse ha ridestato il dibattito sui cosiddetti « Neet», i giovani not in education, employment or training. I dati dell’Ocse confermano quanto già saputo: il tasso di disoccupazione italiano è cresciuto durante la crisi meno dell’aumento medio osservato dell’area Ocse, sebbene, nello stesso tempo, il tasso di disoccupazione giovanile sia cresciuto fino ad essere uno dei più alti tassi della stessa aerea. In questo ambito geografico i «Neet» sono circa 22,3 milioni. Nella sola Italia non sono impegnati né al lavoro né in qualche percorso formativo circa il 28,8% dei giovani tra i 25 e i 30 anni e il 18,8% tra i 16 e i 24 anni. Equivale a dire oltre due milioni di ragazzi.
Qual è l’identikit del «Neet»? Si tratta in maggioranza di donne residenti nel Mezzogiorno (area nella quale sono concentrati il 60% degli inattivi). La principale causa del fenomeno pare essere lo scoraggiamento, prima ancora che la difficoltà a trovare un lavoro. Il livello d’istruzione di questi giovani è più basso rispetto a quello della restante quota della popolazione coetanea, ma non pochi sono i laureati, a conferma che il possesso di un titolo terziario non è di per sé garanzia di riuscita occupabilità. Si consideri che la percentuale di stranieri è pressappoco del 15% e nella statistica rientrano anche più di 50mila ragazzi inabili al lavoro e altrettanti giovani con problemi con la giustizia. Da ultimo, ben pochi sono i «Neet» che vivono da soli: in tutta Europa si nota che gli Stati con un alto tasso di «Neet» sono quelli dove i giovani restano più a lungo a con i genitori.
Premesso che i dati vanno letti tenendo conto dell’effetto distorsivo del lavoro nero, è comunque innegabile l’emergenza «inattività giovanile» col quale deve fare i conti il nostro mercato del lavoro. In Italia gli inattivi, tabelle Eurostat alla mano, sono addirittura il 71,6% per la fascia di età 15-24 e il 31% tra gli under 30.
Quali soluzioni? Ancora l’Ocse individua una correlazione positiva tra la diffusione di esperienze di alternanza scuola-lavoro e minori tassi di disoccupazione giovanile. Il riferimento è certamente ai paesi di lingua tedesca, dove si è affermato il sistema duale di formazione professionale, incentrato sull’apprendistato. In altri termini, dove ha «successo» il contratto di apprendistato sono bassi i tassi di disoccupazione giovanile. Non solo. Sempre l’Ocse scrive che «anche se la legislazione restrittiva sui contratti da lavoro a tempo indeterminato potrebbe aver aiutato il Paese a contenere l’impatto della recessione sul mercato del lavoro, nella fase attuale tale legislazione potrebbe scoraggiare le assunzioni, soprattutto con contratti permanenti, mettendo dunque a repentaglio la ripresa. Di conseguenza, per promuovere una più rapida creazione di posti di lavoro e ridurre il dualismo, si dovrebbe varare un’ampia riforma dei contratti di lavoro». In altri termini, come già suggerito dalla Bce, anche l’organizzazione economica mondiale mette in relazione le rigidità del diritto del lavoro e la possibilità di occupazione per i giovani.
Traducendo in termini italiani, il contrasto all’inattività giovanile e alla crescente diffusione dei «Neet» paiono quindi essere formazione professionale, apprendistato e articolo 8. Formazione professionale per ridurre il mismatch tra domanda e offerta di lavoro e colmare la richiesta insoddisfatta delle imprese; apprendistato per incoraggiare l’alternanza scuola lavoro e inserire nel mercato del lavoro i giovani con un contratto non «precario»; articolo 8 per provare a sperimentare accordi che scambino maggiore produttività con nuova occupazione.

Le strade sono segnate; sta ora ai tanti soggetti coinvolti (i giovani innanzittutto; poi imprese, lavoratori, sindacati, scuole eccetera) percorrerle senza perdersi in polemiche preventive sulla loro affidabilità, aspettando di giudicarle quando, e se, saranno arrivati alla meta. Che per l’Italia è maggiore e migliore occupazione giovanile.

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