Per il terzo anno consecutivo è Daniel Barenboim a occuparsi del titolo che il 7 dicembre apre la stagione d’opera del Teatro alla Scala. Vale a dire Don Giovanni, dramma giocoso di Mozart su libretto di Da Ponte. «È la prima opera che vidi da bimbo e che poi diressi, nel 1973. Facevo concerti da 23 anni ma non avevo ancora diretto un’opera. Del resto, non mi considero un direttore d’orchestra di opera», confessa Barenboim, dal 1° dicembre e fino al 2016 ai vertici del teatro d’opera numero uno d’Italia, la Scala.
Timori di entrare nel tritacarne mediatico e isterie che accompagnano ogni Prima scaligera? «Non parlerei di isteria, ma di esaltazione. Che non è una prerogativa della Scala, semmai è una qualità molto italiana. Certo, questa straordinaria capacità d’entusiasmo può portare a perdere il senso di certe cose». Quanto a Mozart, «è geniale e unico perché non tollera l’esagerazione». Deduciamo che la genialità non appartiene al temperamento italiano. Bene. La commistione di tragico e comico connota invece Don Giovanni, «ogni volta che una situazione oggettiva è buffa c’è sempre una situazione soggettiva tragica. E viceversa», continua Barenboim durante l’incontro con gli studenti dell’Università Cattolica. E fa l’esempio della celeberrima aria del catalogo (delle donne sedotte dal libertino). Con Leporello che, spumeggiante, rispolvera le conquiste di Don Giovanni mentre «la povera Elvira si trova in una situazione tragica. Per la prima volta conosce quello che aveva fatto e continuava a fare Don Giovanni». E la povera Donna Anna, anche lei sedotta? «Con Donna Anna non c’è stata una violazione, anzi s’è divertita, almeno secondo me. È evidente che quando parla con Don Ottavio mente. Un po’ come era accaduto con il caso Clinton-Lewinski. Lei parla di tormenti ma la musica è abbastanza leggera».
Vorremmo sapere come verrà risolto il finale, croce e delizia di ogni regista, in questo caso Robert Carsen. Barenboim, astutissimo come sempre, svicola.
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