Politica

Le donne afghane ci chiedono coraggio

Daniela Santanchè

S ono arrivate in silenzio e sono ripartite in silenzio, circondate dall'indifferenza generale. Chi ha prestato un po’ di tempo e di attenzione alla delegazione di donne afghane riunite alla Farnesina per partecipare ad un incontro sui problemi della ricostruzione nel loro paese? Quasi nessuno. Strano ma vero: nel momento in cui si torna a celebrare il vecchio rituale della parola alle masse (dobbiamo imparare ad ascoltare il popolo e i «movimenti», si è detto e ridetto a Vicenza), di quel popolo e di quel movimento che pure ha le carte in regola più di ogni altro per essere ascoltato e per discorrere di pace e di lotta al terrorismo, ci importa poco o nulla.
Ma non così strano se appena ci si riflette un momento, perché quelle donne a Roma non hanno portato né striscioni né manifesti né i facili slogan che sembrano ormai essere il nuovo linguaggio di una politica da stadio. Hanno portato cifre, dati concreti e la testimonianza fin troppo scomoda per i nostri pacifisti e per chi li sostiene, della doppia, drammatica realtà del loro paese. I progressi nel campo dell'istruzione, della sanità, della giustizia e dei diritti civili, progressi impensabili prima dell'intervento dei paesi occidentali quando la vita era un incubo e la morte finiva per essere un sollievo. Ma hanno anche ricordato, spazzando via la retorica del pacifismo da corteo, che quell'incubo è ancora lì, dietro l'angolo. Ci hanno parlato di una situazione di emergenza, degli attacchi che vengono sferrati dai talebani soprattutto contro le scuole femminili e le loro insegnanti, dell'analfabetismo e della miseria, degli stupri e degli omicidi che imperversano nelle zone più a rischio. Ma soprattutto ci hanno chiesto, con il peso di chi occupa più di un quarto dei seggi nel Parlamento afghano, di pensare a Kabul oltre che a Roma, di sostenere sì la ricostruzione ma senza dimenticare le responsabilità della sicurezza perché le due cose funzionano insieme o non funzionano affatto. Ci hanno chiesto insomma un po' di coerenza e un minimo di coraggio, un impegno per l'Afghanistan e non solo per l'Italia. Il popolo virtuale degli slogan, degli striscioni e il popolo delle persone in carne e ossa che scommettono ogni giorno la loro vita su problemi reali e per un traguardo reale: una possibilità di futuro.
Domani al Senato il governo presenterà il suo programma di politica estera. Non è difficile indovinare a chi andrà la sua preferenza: meno Nato e più Onu è la parola d'ordine dell'ultima ora che si aggiunge alle tante ascoltate in questi in giorni. Come dire: più chiacchiere e più slogan, meno sicurezza e meno responsabilità per la difesa del territorio dalle minacce dei fondamentalisti e per la protezione di coloro che lo abitano. E se tutto questo dovesse aprire le porte agli assalti alle scuole, ai tribunali o agli ospedali? Pazienza, il popolo della pace è troppo occupato a sfilare nella piazze per occuparsi di questi dettagli. E se svilire il ruolo e il significato della nostra missione militare avesse come conseguenza un aumento delle uccisioni, degli attentati o degli stupri? Le donne dell'Afghanistan se ne facciano una ragione: è così che noi intendiamo la ricostruzione. Nello sventolìo di stendardi e manifesti, l'unica guerra legittima, quella per la tenuta del governo, val bene qualche trascurabile danno collaterale.


Ps. Cosa diranno di tutto ciò domani in Senato le illuminate donne della sinistra italiana?

Commenti