da Milano
«Arredatore» definivano Luchino Visconti colleghi invidiosi, per via dei meticolosi sfondi dei suoi film. È celebre l'aneddoto delle camicie di seta che il protagonista del Gattopardo, Burt Lancaster, doveva trovare nel cassetto della sua stanza. «Ma chi se ne accorgerà?», obiettò l'ispettore di produzione, dubitando che il pubblico s'intendesse di stoffe. Lancaster!, replicò Visconti. E seta fu.
Gli homines novi non amano il popolo, perché hanno stentato a separarsene. Aristocratico, Luchino non aveva questo problema. Diceva anzi di rimpiangere un certo «odore di Milano». E lamentava: «Nessuno mi restituirà i giardini sul Naviglio, le carrozze, i profumi delle botteghe, nostalgia delle rondini che la sera volavano intorno a casa nostra, in via Cerva, le campane di san Carlo, le signore che uscivano dal caffè Conolla. Mia madre ci portava a passeggio sui bastioni: sento ancora il sudore dei cavalli. All'ora di cena, la luce del lampadario in sala da pranzo s'abbassava e mio padre diceva: Hanno acceso alla Scala».
Tradizione di famiglia, la Scala: il nonno paterno di Luchino, che ne era il mecenate, un giorno mise il tutù per irrompere fra le ballerine. Dall'altro ramo, Luchino aveva un'ascendenza borghese-farmaceutica: Carla Erba era una madre amata da Luchino nella realtà di allora e desiderata in ogni senso nei film di dopo. È lei che affiora nei personaggi di Alida Valli in Senso, di Ingrid Thulin nella Caduta degli Dei, di Silvana Mangano in Morte a Venezia, di Claudia Cardinale nel Gattopardo e in Gruppo di famiglia in un interno, perfino di Laura Antonelli ne L'innocente. Ognuna di loro è un frammento di Carla. E di Luchino, che, se non diceva «Donna Carla c'est moi», lo pensava.
Bovary? Nella gara di infedeltà col consorte, Carla non restava indietro. Il duca Giuseppe commentava: «A chacun son hobby». Quasi sempre maschile, per entrambi. Circolava una storiella che ancorava quella virile preferenza a una lunga tradizione. L'araldo di Federico Barbarossa avrebbe annunciato ai milanesi il loro destino di vinti fecendo un po' di confusione: «Gli uomini saranno violentati, le donne passate a fil di spada». Prima che si correggesse, un Visconti avrebbe intimato: «Quel che è detto è detto!».
Un secolo fa però lo scandalo era ammesso solo in privato: darlo in pubblico significava separazione legale. Quella di Giuseppe da Carla venne giudicata iniqua dal tribunale: anche più venale della borghese consorte, il duca Giuseppe pretendeva, come pecunia doloris, la quota dell'azienda di famiglia che lei condivideva con la sorella. E questa non era d'accordo. Così le azioni tornarono dal coté de chez Guermantes - a Milano impersonati dai Visconti - al coté de chez Swann, cioè gli Erba.
Il giovane Luchino scherzava: «A casa nostra mai domandare l'ora: ci mancano due quarti». Di nobiltà, intendeva. Il maturo Luchino valorizzava i due quarti esistenti: «Mio padre! Un nobile, ma certo non un frivolo e tantomeno un cretino. Un uomo colto e sensibile che amava la musica e il teatro, ecco. Che ci ha aiutati tutti a capire e ad apprezzare l'arte. Sono cresciuto con l'odore del palcoscenico nelle narici. Quello personale che avevamo in via Cerva e quello, stupendo, esaltante, della Scala, che allora era una cosa privata, sostenuta dal mecenatismo di mio nonno e di mio zio, dopo».
«Anche l'odore di farmacia - aggiunse in età - è cresciuto con me. I parenti di mia madre venivano da Porta Garibaldi. Avevano cominciato vendendo medicinali per strada, col carretto... Ma ormai si era al grande stabilimento... E noi ragazzi entravamo in quei corridoi che puzzavano d'acido fenico ed era così eccitante, così avventuroso... Il senso di concretezza, che ho sempre avuto, credo d'averlo preso da quel ramo lì». La ditta Erba era concessionaria della Liebig. Ciò permetteva a Luchino di avere, tutte e gratis, le figurine ambitissime dai bimbi di allora. Anche questo consolidava il suo innato senso del privilegio.
Visconti non era solo un Buddenbrook padano. Per passare dal coté de chez Swann al coté de chez Guermantes, non doveva nemmeno uscire.
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