E adesso la sinistra sposa a testa bassa la retorica patriottarda

Caro Granzotto, si avvicina il giorno della celebrazione, con festa nazionale, dei 150 anni dell’unità d’Italia. È evidente il tono minore unito a un generale disinteresse: non c’è solennità, non c’è spirito partecipativo, non c’è in giro quella festosità che si addice a un evento simile. Però ci sono molti attriti fra i risorgimentalisti puri e i così detti revisionisti, si parla male di Garibaldi e c’è chi insorge. Possibile che nemmeno in questo caso la società politica e civile non sappia trovare una concordia anche di maniera?
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Il fatto è, caro Paolucci, che la sinistra ha voluto buttare in politica la ricorrenza, anche a costo di andare contro natura. I così detti progressisti sono infatti sempre stati internazionalisti e dunque avversi al nazionalismo e ai suoi simboli, a cominciare dalla bandiera e dall’inno (non dimentichiamo che Palmiro Togliatti, eppure il Migliore, ebbe a dire, al XVI congresso del Pcus: «È per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana perché come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più»). Ma avendo colto nel Centocinquantenario l’occasione di fare un po’ di antiberlusconismo di riflesso attaccando la Lega, i cui sentimenti sull’unità sono noti, hanno saltato il fosso ritrovandosi ipernazionalisti, furiosamente patrioti e paladini degli ideali risorgimentali. Come c’era da attendersi, alla repentina e strumentale conversione non manca quel tanto di sgangherato che è il segno distintivo delle discese in campo dei «sinceri democratici». I quali, non sapendo come altrimenti maneggiare l’argomento, si sono appiattiti sulla ringhiosa difesa della vulgata attaccando a testa bassa - e dimentichi della lezione di Antonio Gramsci - coloro che assieme alle luci pongono l’accento anche sulle ombre dell’epopea risorgimentale. Liquidandoli, alla maniera comunista, come revisionisti o, in modo più folcloristico, come neoborbonici. La sceneggiata patriottarda della sinistra, sempre sopra le righe, sempre cadenzata dalle parole d’ordine e dagli slogan, ha offerto - e seguiterà a offrire, c’è da scommetterci - momenti di ilarità e acceso vivaci polemiche rendendo così impossibile quel clima di solenne partecipazione (anche se non collegialmente sentita) alla ricorrenza.
Sarebbe divertente e istruttivo procedere a un florilegio delle ipocrite bischerate dei «sinceri democratici» in versione patriottarda. Manca purtroppo lo spazio. Le citerò, caro Paolucci, solo due assaggi, tratti dal Venerdì di Repubblica dedicato a «Garibaldi superstar». Il simpatico Giorgio Bocca vi scrive che l’unità d’Italia ebbe la sua cresima con la Resistenza perché imbracciando il fucile i baldi partigiani non ebbero alcun dubbio «che l’Italia era una terra ch’Appennin parte, e ’l mar circonda et l’Alpe». Davvero ben pensato evocare, quale sublime momento unitario, una guerra civile (perfezionata in guerra intestina: malga Porzius, strage di partigiani a opera di altri partigiani). Poi c’è Curzio Maltese che di storia mastica poco e quindi fa riferimento alla «splendida lezione» di Roberto Benigni («uno dei punti più alti della storia della televisione italiana». Bum!). Pertanto la rimena con la favola benignesca dei fautori del Risorgimento che ne uscirono più poveri di com’erano entrati. Vada a leggere come ne uscì, uno per tutti, Garibaldi. In pieno lirismo deamicisiano, Maltese arriva a scrivere che Cavour morì «stroncato dalla fatica» per il gran tessere la trama unitaria mentre, come sa anche Benigni, nella versione politicamente corretta il conte morì di malaria.

Se poi si deve proprio far riferimento alle fatiche, allora meglio chiedere lumi, mediante seduta spiritica, a certa Bianca Berta di Valentino Sevierz-Ymar, maritata Ronzani. Una stangona d’origine prussiana che sapeva bene come affaticare gli uomini.
Paolo Granzotto

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