E il covo dell’orrore diventò un nido d’amore

Per difendersi dal mondo dittatori e terroristi hanno sempre costruito bunker arredati in modo folle. Mai serviti a nulla

La dimora più famosa è quella di Adolf Hitler: quindici stanze più servizi, seppelliti sotto il giardino della Cancelleria di Berlino a dodici metri di profondità. Duecento metri quadrati, arredamento un po’ spartano con armadietti di lamiera e letti da campo. C’erano luci basse, aria umida e atmosfera cupa. Il Führer si suicidò in salotto. La tv non c’era ancora.
Il rifugio più ecologico invece lo ha abitato Pol Pot: due milioni di metri quadrati di giungla cambogiana, provincia settentrionale di Preah Vihear. Vegetazione prepotente, seminata di trappole e templi di pietra dappertutto. Si nascondeva in una grotta simile a quella del colonnello Kurtz, il Marlon Brando di Apocalypse Now, il posto era lo stesso, la grotta pure. Nella casa del «Grande Fratello», traduzione di Pol Pot, a eliminarlo a tradimento fu una delle guardie ingaggiate per difenderlo dai nemici: la malaria.
L’alloggio più ricco è stato quello che favoleggiavano custodisse Saddam Hussein: nome in codice 305, sulla riva sinistra del Tigri. Grande come un campo di calcio su due piani, 534 posti letto, centro di teletrasmissioni, area di decontaminazione, sala operatoria. Un tetto di cinque metri così solido da resistere a una temperatura di 300 gradi, farci rimbalzare un Cruise e trasformare la bomba di Hiroshima in una leggera vibrazione appena percepibile. Ma si sa poi come vanno a finire le cose con le case. Visti i prezzi che corrono alla fine ti accontenti del primo buco che trovi: quello dove hanno trovato il raìs era un lavandino abitabile, che i genieri della Quarta Divisione di Fanteria americana hanno sigillato con due spalate. Il timore era che il «il buco del ragno» potesse diventare un monumento. Ma forse l’hanno fatta più grande di quella che è.
L’ultimo domicilio dei macellai della storia non ha bisogno di Tore Bore per diventare grottesco. Ogni dittatore ha avuto il suo, possibilmente lontano dalla realtà, quasi sempre sospeso nel tempo, un vano riparo due volte su tre. E ognuno lo ha personalizzato a modo suo. Mobutu aveva un debole per i marmi rosa, Saddam per le poltrone rosse, Ceausescu per i rubinetti dorati. Pol Pot invece era ossessionato dall’arredo delle pareti che voleva tappezzate di foto delle sue vittime scattate subito dopo l’esecuzione. Gli piacevano i posti con vista mozzafiato. Per costruire questi castelli sotterranei non si è mai badato a spese. Milosevic attrezzò il suo con ascensori superveloci e linea metropolitana privata, Siad Barre ci parcheggiò il jet privato che sbucava all’improvviso dal nulla, tra le colline che circondano l’aeroporto di Mogadiscio.
In tutto questo spreco l’unico materiale di scarto è sempre stato l’uomo. Ceausescu fece costruire la ragnatela di cunicoli che collegavano i suoi palazzi da centinaia di prigionieri politici. Poi per conservare segrete le mappe li faceva eliminare, uno per uno, e seppellire direttamente sul posto.
Nel bunker di Gamsakhurdia, i ribelli georgiani liberarono una quarantina di ostaggi, tra cui il vice ministro della Difesa. Erano stati tutti torturati, tra la veranda e l’angolo cottura. C’erano manette appese ai tubi dell’acqua, cavi per l’elettroshock nascosti dentro il comò. E decine di scheletri, soprattutto negli armadi. Tra le rovine di Villa Somalia, ultima trincea di Siad Barre, c’erano invece centinaia di suppliche, invocazioni di grazia, richieste di pietà rimaste senza risposta «A Sua Eccellenza Siad Barre, chiedo la libertà per il poeta Abdullah Rage Traweh, imprigionato senza accuse da cinque anni...». «A Sua Eccellenza Siad Barre chiedo grazia per...». Una casa vuota, ma piena di ombre.
Il più megalomane di tutti però è stato Enver Hoxha. Prima cercò di diventare più stalinista persino di Stalin, poi trasformò l’Albania tutta in un bunker personale da dove, in quarant’anni di potere, non uscì mai né per una parata, né per un viaggio all’estero. Molti dei 700mila bunker costruiti per difendersi da un invasore mai sbarcato, (monoposto, familiari, con fortino incorporato, spuntoni di vetro e cannoncini regolabili) sono stati riconvertiti. I contadini ci hanno infilato pecore e galline, quelli sulla spiaggia sono diventati «chiringuito» e cabine per i bagnanti, le coppiette hanno riciclato le claustrofobiche tane della paura in tempi dell’amore libero. La fine, in fondo, che si meritavano.
Nei bunker si sono consumati progetti grandiosi e visionari, ma quasi sempre senza porte d’uscita.

E anche se si tratta di vivere, come dire, al di sotto delle proprie possibilità, nessun dittatore vuole rinunciarci. Perché resta l’ultimo segreto, privatissimo, posto al mondo dove nascondere qualcosa di cui vergognarsi. Se stessi, per esempio.

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