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E Fassino resta solo sul Partito democratico

Pesano le divisioni tra Margherita e Ds sui temi etici e la sfilata al Gay Pride della Pollastrini. Il segretario della Quercia è l’unico a crederci

Luca Telese

da Roma

Ma si farà davvero, alla fine, questo benedetto Partito democratico? Il dubbio sorge spontaneo, dopo la rabbia degli ulivisti convocati venerdì dall’associazione Incontriamoci, i pretoriani della società civile, lo zoccolo duro della fabbrica del programma prodiana (oggi traslocata a Palazzo Chigi), accorsi a Roma da tutta Italia per applaudire i propri ministri, finiti a contestarli e poi ritornati a casa con il morale a terra (dopo aver sentito le loro risposte).
Venerdì, i militanti ulivisti si sono ritrovati a Roma con l’alabarda levata, pronti a fare le pulci ai primi trenta giorni di governo: implacabili con i loro stessi dirigenti, intransigenti, furibondi per la «carica dei 102» (sottosegretari) messi in campo dal premier. E se sono arrabbiati loro, tanto per cominciare, non si capisce chi dovrebbe celebrare questa fusione a freddo, da cui Margherita e Ds contano di far nascere il nuovo partito democratico. Non certo dalla platea che ha contestato i ministri Giovanna Melandri e Giulio Santangata al grido: «Ma dov’è il cambiamento? Dov’è?». Ecco, il primo problema è quello: gli elettori dell’Unione, dopo anni in cui si erano sentiti dire che il governo Berlusconi era il peggio del peggio adesso chiedono all’Unione di essere «migliore». Ma i partiti sembrano troppo indaffarati per prestare loro attenzione.
Sul Sito di Incontriamoci, poi, c’è ancora in bella mostra la lettera di ringraziamento di Romano Prodi: «In un’Italia che qualcuno voleva divisa, siete stati capaci di unire. Incontrando persone, organizzando appuntamenti, dialogando e confrontandovi. È - scriveva il Professore - la lezione più grande». Sarà anche grandissima, la lezione. Ma intanto, finite le esigenze della campagna elettorale, ai volenterosi della società civile si è detto che è ora di tornarsene a casa: «Incontriamoci - ha detto Santagata venerdì sera - resta una chiacchierata online e niente più. Se qualcuno pensa che da questa che qui nasceva un movimento politico con a capo Santagata ha sbagliato di grosso». Ma subito dopo, il ministro più vicino a Prodi non rinunciava a staffilare anche i partiti: «Ai partiti noi chiediamo di sciogliersi e di fondersi nel partito Democratico». Resta il fatto che i partiti non si sciolgono e che i militanti di base si sono stancati. Soprattutto quando protestano per la proliferazione delle poltrone e si sentono rispondere (sempre da Santagata): «Ci sono dei partiti che raccolgono decine di migliaia di voti in molti capoluoghi di provincia. Come si fa a dire loro di no?». E dal fondo quel grido: «Dov’è il cambiamento? Dov’è?». Per ora non si vede. E non si vede nemmeno traccia del clima di convergenza da cui dovrebbe nascere il nuovo partito. La prima plastica rappresentazione è ovviamente sulle questioni civili, dove la settimana scorsa la margheritista Paola Binetti firmava l’appello sulla famiglia insieme agli esponenti del centrodestra e la ministra diessina Barbara Pollastrini partecipava alla manifestazione dei gay per i Pacs. Spiegava l’esponente cattolica: «Questo è un tema su cui non c’è accordo su un’iniziativa da parte del governo, né se ne fa menzione sul programma dell’Unione».
E su cosa dovrebbe nascere, un partito su cui ci sono opinioni così difformi? Sulla leadership. Forse. Peccato che anche i sassi sappiano che l’unico dirigente impegnato ufficialmente nel progetto è Piero Fassino, l’unico rimasto senza poltrona nel gioco della sedia di Palazzo Chigi. Uno che - cosa che può accadere solo in un Paese smemorato come il nostro - quando Romano Prodi lo aveva lanciato era uno dei principali nemici del progetto. Basterebbe questa citazione del suo intervento ad una assemblea congressuale dei Ds: «Nessuno tra noi pensa di fare un “partito unico”, ma conferma la sua idea di arrivare ad un “soggetto federativo” che riunisca tutti i riformisti» (16 novembre 2003). Adesso, con i radicali che restano fuori, con Di Pietro che non c’è, con il Pdci che giura di non rinunciare alla sua autonomia, i principali soci fondatori dovrebbero essere proprio Ds e Margherita e quel leader così recalcitrante e poco carismatico.


Così, alla fine, i «buhh» dei militanti ulivisti nell’assemblea di Roma sono la prova che il partito democratico, dopo la vittoria, non è più vicino, ma molto più lontano. Il motivo, alla fine, è molto semplice. Il nove aprile è venuto meno il principale cemento che lo teneva insieme: l’antiberlusconismo.

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