«Sta Cimosco alla posta, acciò non passi senza pagargli il fio laudace conte»: dietro uno scanto - allinterno della sua capitale, perché ormai il nemico ha preso il ponte e la porta, e lo cerca furiosamente - il re di Frisia Cimosco attende che il suo avversario si faccia avanti senza prudenza. Ed eccolo, laudace conte, il furioso Orlando: «Tosto chappare», il re dà fuoco alla polvere, «allo spiraglio tocca col fuoco il ferro, e quel subito scocca». Un rumore dinferno inonda la scena: «Trieman le mura, e sotto i piè il terreno; il ciel ribomba al paventoso suono», mentre il ferro cavo che egli tiene in mano «dietro lampeggia a guisa di baleno, dinanzi scoppia, e manda in aria il tuono». Larchibugio di re Cimosco ha appena parlato il suo linguaggio, la cui sintassi «spezza e venir meno fa ciò chincontra», la fonetica «sibila e stride» e la consecutio temporum non «dà a nessun perdono».
Ma, sarà la fretta, sarà «la troppa voglia duccider quel baron», Cimosco sbaglia il colpo. Oppure è il fremito delle membra: «O sia che il cor, tremando come foglia, faccia insieme tremare e mani e braccia». O non è forse Provvidenza? «O la bontà divina che non voglia che l suo fedel campion sì tosto giaccia». Salvo è il paladino, ma a prezzo del destriero: «Quel colpo al ventre del destrier si torse; lo cacciò in terra, onde mai più non sorse». Ma il colpo è pestifero anche per chi lo ha balenato: giacché Orlando si rialza da terra come un fulmine di Giove, fa tremare «nel ciel Marte» per la furia con cui si muove, rende «smarrito il re frison». E Cimosco volta il cavallo per fuggire, senza aver neppure il tempo di articolare un ultimo pensiero mentre il fendente di Orlando gli recide la testa dal collo.
Solo la «gran virtù del cavaliere antico» ha potuto superare - e al prezzo non modico dun magnifico stallone - lorribile canto del nuovo che avanza, il ferreo stridere e sibilare dellarma da fuoco. Così, nel nono canto dellOrlando furioso, Ludovico Ariosto (1474-1533) si immaginava un tempo mitico in cui gli eroi ancora potevano vincere la mala genìa di «bombarda e scoppio, semplice cannon o cannon doppio, sagra e falcon, colubrina o arcobugio», che ormai imperversava nellimmaginario e sui campi di battaglia rinascimentali. Giacché il tempo della guerra del Rinascimento fu pressoché dominato dalluso e dallabuso - su scala ormai troppo vasta per essere contenuta da leggi e canoni, maledizioni e spergiuri - della polvere pirica e delle sue molteplici applicazioni belliche: dalle armi portatili a quelle da campo e alla poliorcetica rinnovata e devastata.
Nella visione dellAriosto, lespansione della «crudele arte» di re Cimosco e del suo archibugio era stata ritardata dalla vittoria di Orlando, il quale aveva sperato di sbarazzarsi una volta per tutte della peste pirica gettando la terribile arma nellOceano. Ma era stato un abbaglio, perché un negromante, istigato dal Demonio, laveva ritrovata e quindi ceduta ai tedeschi, dai quali lavevano copiata quelli di «tutte laltre bande». Finivano in tal modo spazzati via lonore e il coraggio? Così ripetevano i retori delle antiche imprese cavalleresche, ma era un altro abbaglio: perché una tecnica, per quanto spietata, non può mai dire lultima parola sul valore umano. E del resto quella stessa epoca vide il risplendere duno stuolo di capitani di ventura, richiamati proprio dalla monetizzazione del proprio ardire, dalla necessità - per città, stati e coalizioni - di ingaggiare sempre più compagnie di mercenari, essendo ormai inesistenti o inutili le milizie cittadine.
La diffusione di tecniche avanzate rese sempre più mortifero il mestiere delle armi, capace di causare in una sola giornata un numero di morti ben più alto rispetto al passato. Fu anche per questo che il matematico bresciano Niccolò Tartaglia (1499-1577) meditò a lungo circa la possibilità di distruggere la Nova scientia, il libro che aveva dedicato allartiglieria e alla balistica.
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