E ora chi ripaga la Calabria avvelenata da una bufala?

Uno dei più intelligenti e appassionanti articoli dell’attuale periodo italiano porta la firma di Antonio Maria Mira, e sta sulla prima pagina dell’Avvenire (di ieri). Sono spiacente, ma non affronta temi elettrizzanti come i nuovi gusti sessuali della nostra rappresentanza parlamentare. Siamo abbastanza distanti. Si parla di una nave sui fondali tirrenici, di sostanze velenose, di Calabria negletta, di giornalismo moderno. È uno di quei temi, cioè, che l’estetica contemporanea scarta subito per noia e fastidio, ormai disposta a scuotersi soltanto per le porcellate altolocate. Invece. Invece siamo davanti ad un caso che dovrebbe davvero scatenare molte discussioni. E anche qualche sana indignazione.
Come giustamente rileva l’Avvenire, nelle ultime settimane il tam-tam della grande informazione ha di fatto colato a picco un’intera regione, senza mai chiedersi se davvero ci fossero gli elementi per un’operazione così crudele e così cruenta. Nessun dubbio, nessuna esitazione: davanti a Cetraro, sul fondo del mare, ci siamo ritrovati il venefico relitto del Cuski, con il suo famigerato carico di cariche radioattive. A certificare la tremenda verità, le rivelazioni di un pentito alquanto visionario e sgangherato, come rigorosamente spiegato dal nostro Luca Fazzo, che su queste cose la sa lunga. Niente da fare, nessuna precauzione: a colpi di reportage e di rivelazioni, la Calabria è finita nel tritacarne. Come se ce ne fosse bisogno, come se già non bastassero i suoi mali antichi, compresi i rifiuti tossici effettivamente seppelliti dalla ’ndrangheta, qua e là, sotto una terra bellissima e vilipesa. Il risultato, un disastro. I pescatori costretti a buttare il pesce. Il turismo costretto a immaginare la prossima estate di cancellazioni. Intere settimane di giornalismo così, ficcante e inflessibile, per mettere in quarantena un’intera regione. Al di là del cordone sanitario, dentro la zona maledetta, il naufragio disperato delle poche speranze rimaste.
Adesso conosciamo la fine della storia: caspita, ci dev’essere un terribile equivoco, là sotto non c’è il Cuski e tanto meno ci sono i suoi veleni mortali. C’è solo un’innocua nave passeggeri affondata dai tedeschi tanti e tanti anni fa. Oddio, mi si è ristretto lo scandalo. E adesso chi lo va a raccontare, in terra di Calabria, dopo settimane di terrorismo eco-psicologico?
L’effetto è spettacolare, nella sua tristezza. Dopo le pagine e i titoli dinamitardi dedicati al mare avvelenato e alla regione contaminata, una zona da evitare come una grande Seveso balneare, ci si aspetta come minimo il lieto annuncio, altrettanto cubitale, della vera verità. Non è certo un risarcimento adeguato, ma è qualcosa. Un dovere civico, se non vogliamo dire morale. Un bel battage per sancire che davanti a Cetraro non c’è l’inferno: con i toni del lieto fine e del pericolo scampato, tutti insieme compiaciuti nel poter tirare un grande sospiro di sollievo. Invece non è così. Purtroppo non è così. Il lieto fine è frettolosamente rivelato in poche righe, tra le notizie brevi, stessa entità e stesso rilievo riservati al tamponamento sull’A4 o alla sagra delle pesche nettarine. Proprio i giornali più solerti e più zelanti nel denunciare la vicenda, dalla Repubblica all’Unità a Liberazione, sono i più sbrigativi nel relegare la verità tra i meandri nascosti delle proprie pagine. E onestamente è difficile dire se sia semplice imbarazzo oppure rabbia vera, nel vedersi portare via l’osso dalle risolutive perlustrazioni marine.
Giustamente Avvenire si chiede: e ora chi pagherà? Chi pagherà i pescatori che hanno invano scaricato ottimo pesce nei porti? Chi pagherà gli operatori del turismo? Chi pagherà questa Calabria già così martoriata? Non sono domande retoriche. Certo il giornalismo ha il dovere di portare a galla, prima ancora dei relitti, le notizie più allarmanti. Se da Cetraro si apprende che in fondo al mare si nasconde una storia poco chiara, giusto rilevarla. Però poi dovremmo tutti trovare la forza di aspettare qualche riscontro e qualche conferma. Non è prudenza, o peggio ancora fuga dalla notizia: si potrebbe chiamare banalmente serietà. Invece qui scatta subito la corsa per portarsi avanti. Tu intanto sparala, poi vediamo. E la fregola non tocca solo i giornalisti. Come dimenticare Veltroni da Fazio, un paio di domeniche fa, con quel suo tono da Gandhi offeso. Riassumo: «In un altro Paese, davanti a un fatto come quello di Cetraro, con gente che fa sparire una nave carica di veleni sul fondo del mare, non si parlerebbe d’altro, sarebbe una questione nazionale, altro che qui...».
Con un piede in America, dove acquista bilocali, e l’altro in Africa, dove non si decide mai a ritirarsi, Veltroni fatica dannatamente ad accettare questo suo Paese. E da un certo punto di vista non gli si può dare torto. Davvero questa Italia ha un sacco di difetti vergognosi. Uno dei peggiori è quello di distruggere persone, gruppi, intere regioni senza risparmio di aggettivi e di fantasie, salvo poi soprassedere quando la verità risulta diversa e sgradita.

In un altro Paese, la scoperta che nel mare di Cetraro non riposa la nave dei veleni, ma un vecchio relitto da collezione, avrebbe pagine e titoli estesi quanto quelli del procurato allarme. Non si parlerebbe d’altro, sarebbe una questione nazionale, altro che qui...

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