In questi giorni, al tavolo delle grandi riforme che possono raddrizzare il futuro del nostro Paese per gli anni a venire, ci sono solo ministri tecnici e i soliti sindacati a nome di una minoranza dei cittadini. Chi aveva eletto una maggioranza politica con una chiara visione fatta di minore spesa pubblica, maggiore decentramento fiscale e politiche liberiste, sta rinunciando suo malgrado a veder realizzato il proprio mandato: le tasse aumentano, il federalismo è nel cassetto e le riforme sembrano in mano ad altri. Il contraltare di questo deficit democratico, si dirà, è la salvezza del Paese.
Monti ha sostanziato di tasse (di proprio gradimento) la manovra che aveva già predisposto il precedente governo, assicurando più o meno il pareggio di bilancio nel 2013. Di per sé ciò dovrebbe tranquillizzare definitivamente i mercati sulla sostenibilità del debito (nessuno può dubitare di chi spende quanto incassa, e saremmo praticamente l’unico Paese a farlo). Ma non è così: lo spread è tale e quale lo aveva lasciato Berlusconi.
Come mai? Primo, ci sono ancora istituzioni finanziarie internazionali che stanno aggiustando i loro portafogli sostituendo il nostro debito con quello di altri Paesi. Secondo, la manovra di Monti è fortemente recessiva e sulla crescita non si è visto ancora nulla: un Paese in cui si lavora poco e si pensa solo a difendere le rendite di bottega difficilmente può crescere e ripagare i propri debiti nel lungo periodo. Solo un netto cambio di direzione può darci la vera credibilità. Qui dovrebbe intervenire la fase due del governo. Il piano di Monti è chiaro: come ha portato insieme in Parlamento nuove tasse e riforma delle pensioni, presenterà insieme liberalizzazioni e riforma del lavoro.
Deve solo decidere quanto spingersi su entrambi i fronti, il che dipenderà dall’umore di Pd e Pdl. In questa partita, il centro-destra deluso nella sua visione complessiva deve saper reagire pragmaticamente per portare a casa dei risultati. In ballo ci sono un vecchio sogno proibito quale il diritto delle imprese di assumere secondo le proprie esigenze economiche senza l’incubo di dover pagare a vita ogni singolo assunto, e ciò che dovrebbe essere l’essenza di un centrodestra liberale: la libertà d’entrata e competizione in ogni settore. Non sarà qualche rivenditore di giornali in più a far crescere il Paese, ha ragione Vittorio Feltri nell’editoriale di martedì.
Ma questo Paese non ha alcuna speranza di tornare a crescere finché non si liberalizzano tutti insieme i settori protetti (l’idea di fare una liberalizzazione per volta sarebbe una inutile follia politica) e finché resta l’attuale articolo 18, che deprime la produttività degli «illicenziabili» per ragioni economiche e preclude nuove assunzioni. Corporazioni e sindacati sono sul piede di guerra, proveranno a smussare ogni tentativo di cambiamento. Solo la politica può dare la spinta nella giusta direzione. Il centro-destra deve saper cogliere questa chance unica in un quadro politico che non si ripeterà. Abbia il coraggio di spingere per ciò che è nel suo Dna, ciò che la stragrande maggioranza dei suoi silenziosi elettori si attendevano e si attendono.
Quadruplichiamo il numero di notai, regaliamo due nuove licenze ad ogni taxista, permettiamo alle edicole di vendere nuovi generi merceologici e ad altri di vendere quotidiani, lasciamo i giovani farmacisti trovare il primo lavoro ad un banco di supermercato con tutte le medicine che vuole, permettiamo ogni forma di competizione di prezzo fra avvocati e commercialisti e così via per tutti i settori protetti in un colpo solo. E lasciamo che un’impresa possa assumere nuovi lavoratori in un periodo di ripresa economica senza l’assillo di non poter mai più tornare indietro quando gli affari vanno male, a costo di fallire pur di rispettare l’articolo 18. Questo sì che convincerebbe i mercati che l’Italia ha un futuro e che i nostri debiti saranno ripagati col nostro lavoro e la nostra crescita.
Anche l'elettore di centro-destra deluso dall’esito di questa legislatura sarebbe ampiamente ripagato da queste novità. Ed il patrimonio politico di questa legislatura avrebbe un degno coronamento.di Federico Etro, Professore Ordinario di Economia Politica, Università Ca' Foscari di Venezia
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